Le fotografie di questo articolo – scattate negli anni 1979-1980 e ricavate da diapositive che purtroppo non sempre hanno mantenuto la qualità originale – hanno ispirato Bedia Ceylan Güzelce, l’autrice dell’articolo, a sviluppare il suo ricordo di una Istanbul che non c’è più. All’epoca la città era la vera porta dell’Oriente che via via si stava occidentalizzando, e Piazza Taksim, nella parte europea della città, ne era considerato il quartiere più moderno. Una metropoli formata da un popolo giovane con tantissimi bambini, allegri ma sovente costretti a lavorare seppur minorenni; auto americane da museo ma ancora utilizzate; traffico e confusione. In cambio, grande ospitalità, curiosità e disponibilità verso il viaggiatore, e l’immancabile offerta del çay (il the in turco) o di cibo dopo aver scattato una fotografia in cui ognuno, con cura, cerca la “posa”. Ricchezza e povertà, la ricerca di fonti di reddito nei modi più vari: il venditore di acqua, di ayran (bevanda a base di yogurt con sale e acqua), di pesce appena fritto, di qualunque tipologia di frutta secca con l’immancabile cartoccio di semi di zucca, i meno costosi; i calzolai, i ciabattini e lustrascarpe o semplicemente la possibilità di pesarsi con la bilancia casalinga in cambio di pochi spiccioli; gli artigiani che prendono in mano l’attrezzo principe del loro mestiere quando si accorgono di essere fotografati; i negozianti orgogliosi della merce che espongono; i semi da offrire ai piccioni che affollano le spianate delle moschee; i “reduci “ di Mustafa Kemal Atatürk, l’eroe nazionale e padre della Turchia moderna, che con orgoglio si mettono sull’attenti; le persone in fila ordinata in attesa dei dolmus (pulmini per il trasporto privato) di cui sovente – dopo averti chiesto nerelisiniz (di dove sei) – si accollano il costo del biglietto, onorati di potertelo offrire; il fumo delle sigarette (abitudine e piaga diffusissima) o l’anziano venditore di bottoni che piacevolmente dialoga con te in francese, la lingua della cultura in voga quando era giovane; la polvere che regna costantemente nell’aria. Istanbul, sì, Istanbul…
Roberto Besana
Di seguito, il testo di Bedia Ceylan Güzelce:
Sei come una casa con la porta sempre aperta per ogni ospite. Sufficientemente grande, sempre affollata, molto gentile, molto elegante e incredibilmente affascinante. Come noi esseri umani, anche le città vogliono avere uno scopo, per non accorgersi di come passa il tempo, per affrontare le difficoltà e forse per trovare un sostegno mentre curano il loro cuore spezzato. Vedo una città che un tempo aveva trovato il suo scopo, per poi ritrovarlo, e così via. Mentre cammino per le strade di queste fotografie, vedo una città che ha trovato il suo scopo, i volti della sua gente sorridono, hanno profondità, desiderio e passione. Questa è Istanbul. Che tipo di Istanbul, mi chiedi?
Immagina di essere al mercato, a casa i bambini che ti aspettano, hai comprato un chilo di mele per mettere qualcosa di sano nel loro pranzo questa settimana; ai tempi tutto si comprava a peso, infili la mano in tasca per pagare e non trovi il portafoglio, oppure non hai soldi ma non riesci a dirlo, e proprio in quel momento incroci lo sguardo del fruttivendolo che capisce la tua situazione, accetta in silenzio, aggiunge un chilo di arance, qualche banana, e con un gesto affettuoso ti manda via salutandoti. Istanbul, la città che capisce, che nasconde in sé ogni stato d’animo umano.
Testo di Bedia Ceylan Güzelce – Fotografie di Roberto Besana
Nota dell’autrice: Mentre osservate le fotografie di Roberto Besana, vorrei che ascoltaste una dei primi valzer in turco, “Kuş Olup Uçsam – se fossi un uccellino”, composto da una donna turca, Neveser Kökdeş, per far sì che il vostro cuore volasse sopra Istanbul.
Ringraziamo Farhad Sakha per aver favorito l’incontro di fotografie e parole