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Casa Professa, il paradiso dei “marmi mischi”

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Tra il XVI e il XVII secolo, in Sicilia, il forte legame che la Chiesa aveva instaurato con le classi al potere si manifestò con un irrefrenabile fervore costruttivo, spesso patrocinato dalle nobili famiglie. L’isola, in quel momento storico, si trovava arenata economicamente in un sistema latifondista per cui era di vitale importanza mantenere intatto il patrimonio per tramandarlo intatto ai primogeniti, e destinando alla vita religiosa cadetti e figlie. I grandi monasteri così si trasformarono secondo le esigenze della nobiltà la quale elargiva lasciti e donazioni, insieme alla cospicua dote per ogni sacerdozio e monacato. Le somme  venivano impiegate per decorare gli interni delle chiese e migliorare le condizioni degli edifici che, contestualmente all’edificazione di sfarzosi palazzi signorili, cambiarono radicalmente il volto alla città.

Casa Professa (Illustrazione di Catia Sardella)

Le chiese si imposero così sul tessuto urbano con austere facciate e maestose cupole in netta contrapposizione ai loro interni in cui si diffondeva una nuova e sfarzosa decorazione frutto della veloce affermazione di nuove tendenze artistiche. Gli splendidi marmi locali, integrati con quelli importati dal resto d’Italia (bianchi di Carrara, neri di La Spezia, giallo di Siena, “smaltini”, azzurri di Venezia, assieme al verde di Calabria) diedero vita alla cosiddetta tecnica a “marmi mischi e tramischi” che si diffuse prevalentemente a Palermo e a Messina.

Non è da escludere che le occasioni di contatto ed interscambio con le altre culture italiane, abbiano suggerito questa nuova denominazione della decorazione del marmo; infatti il termine “mischio” usato in Sicilia nel Seicento era già stato utilizzato da Giorgio Vasari nella descrizione della cappella sepolcrale dei Medici da lui ideata nel 1561 “…tutta di marmi mischi e mosaico…”. Nello stesso periodo anche a Roma si fece largo uso di tarsie marmoree policrome, con rari inserti in rilievo, per rivestire le pareti delle cappelle dei Papi e delle potenti famiglie romane. Queste possibili influenze sono comunque da considerarsi solo come ulteriore stimolo ad un ambiente già predisposto. Non bisogna dimenticare infatti che la tecnica della tarsìa, la opus sectile, già eseguita a Palermo nelle raffinatissime decorazioni dei monumenti normanni, rimane nella memoria genetica dei siciliani che riaffiorando rivendica la sua indipendenza da episodi stilistici elaborati altrove. Gli interni di numerose chiese ne furono totalmente ricoperte: il Gesù a Casa Professa, la Concezione al Capo, S. Maria in Valverde, il Santissimo Salvatore e Santa Caterina d’ Alessandria. La particolarissima decorazione, che fu sicuramente il fenomeno più eclatante ed originale del barocco palermitano, cela però dietro al carattere palesemente decorativo, una fitta trama di significati religiosi in quanto dopo la tempesta riformista la Chiesa doveva dare segni espliciti della sua potenza tessendo con figure allegoriche, simboli cristiani e temi biblici, significati concettuali di un discorso educativo rivolto al credente come efficace mezzo di persuasione cattolica.

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di Catia Sardella – Fotografie di Vincenzo Macaluso