Eos dalle “dita rosate” (Omero, nell’Iliade, ci regala la prima poetica immagine della dea greca che annuncia il giorno precedendo il carro del sole) irrompe e fuga – magia delle sue mani? – la penombra che domina persone e “cose”. Gli uomini attoniti e silenziosi si ritraggono, le “cose” emergono in balenii caleidoscopici: sussurri e grida su un ripiano, suoni e canti sull’altro.
Ancora stupiti gli ospiti stentano a confrontarsi con il magister/faber che ha insufflato, anch’egli con le mani, la vita alle straordinarie creature, alle “cose”. Protagonisti di tempi più o meno remoti hanno la capacità di suscitare un gorgo di emozioni in cui è facile smarrirsi. Scilla e Cariddi non sono poi così lontane. Dalla stessa costa dove sono arenate sacre icone, potrebbero riemergere, inoffensivi e afoni, dei e mostri, avviliti da culture sempre più banali e scadenti. Vergini ieratiche ma bonarie, mogli, madri, figlie di quei paesi appollaiati o mollemente adagiati sulle falde dell’ultimo Appennino. Dominae di lidi altri deputate dalla locale pietà popolare alla protezione di mariti, padri, figli. Uomini che dalle reti hanno tratto il sostentamento, cantandone la ricchezza, bestemmiandone la scarsità. Marinai che hanno invocato la Vergine, nera o bianca, nei perigli e nelle processioni.
Nella luce dorata dell’Aurora storia e miti, mortali e dei, interloquiscono. Phaenomena, attori e comparse srotolano racconti accompagnati da espressioni e colori; stratificazioni dell’inconscio collettivo,tradizioni orali sopravvissute agli ultimi cantori. Solo Mnemosine, allentato il peplo, può indurre il magister, solitamente schivo e silenzioso, a dare voce alle sue “creature”, cristallizzazioni di culture altre, archetipi di warburghiana memoria. Gli ospiti seguono le storie carezzando con lo sguardo l’epifania di un’Immacolata Concezione portata a spalle nel dicembrino mare di Nicotera. Robusti marinai reggono la vara: decisi timbri di colore si rincorrono e si rimandano dai fiori alle acciughe, inusuale decoro per una veste divina. Il biondo angioletto tenta la scalata della Vergine aggrappandosi alle reti e alla coda di una smilza alice. La Sirena alata stringe al seno un marinaio. Ammaliato, per sempre perduto alla patria e alla casa, non potrà sottrarsi alla sorte cui sono sfuggiti Ulisse e i suoi compagni. È questo il mondo fantastico del “pentito” perito informatico che abbandonato il mondo binario ha costruito, autodidatta con ascendenze artistiche nel nonno Nazzareno ‘u Signuri, il suo sogno, la sua “bottega”. Panofsky docet a Pizzo dove Antonio Montesanti e Aurora “peplo di croco” (altro epiteto con cui Omero connota la dea) accolgono gli ospiti. Tra onde viranti dal blu cobalto e al verde intenso, le sirene tentano Odisseo, testimone insolito il mai placato Poseidone. Incanta la narrazione, stupiscono i monstra, affascinano le Madonne connotate da… un “fracasso”, “tonni irraggiungibili”, “muratori”.
Se una Sacra Famiglia ha nel paziente vecchio Padre il suo protagonista, l’Eleusa, delizioso vas spirituale, vas honorabile, vas insigne devotionis, ha nell’aureola il suo manico. Due tonni curiosi fanno capolino dalla tinozza mentre il piccolo si attacca disperatamente al nimbo materno. La didascalia recita che…“Non è ora del Battesimo”. Antonio riesce a fondere ironia e colori brillanti nel suo “sentire” mediterraneo. Al bianco del “sacro cuore del pescatore” basta una sola acciuga rossa per evocare il Sacro Cuore di Gesù e rimandare alla Madonna dei Sette dolori. Sulla parete destra: Santina e il suo lupo di mare sonnecchiano nel meriggio assolato, soddisfatti e ristorati dallo zibibbo, appoggiandosi alla barca, anche essa Santina. Sulla parete sinistra Silvia è al comando dell’omonimo peschereccio, ruolo eccezionalmente svolto da una donna in un “mondo” e in un tempo declinati al maschile. Tonnaroti girano l’argano accompagnandosi con i canti che l’etnomusicologo Alan Lomax ha salvato dall’oblio. Sulla palombella i versi dei tempi e delle azioni di un duro lavoro mutato dai colori di Antonio in allegro girotondo. Caterina, un tonno, un after shave e gli apotropaici peperoncini assistono il tonnaroto che si rade alla luce di tre strane lampade. Su un remo si snoda una processione di marinai. Una ciurma, munita di arpioni, stretta e costretta in una lira calabrese ha avvistato teneri tonni dalle bocche a cuoricino. Ai pescatori del vecchio fracasso fa eco il tonnaroto che scruta il mare. Sull’anta un tonno e un numero, il 27. Nulla è lasciato al caso. Quel numero aveva un preciso significato nel “sistema di comunicazione visiva mare-terra” durante la mattanza: la poesis del Maestro ha sostituito alla loggia la finestra.
Nella “bottega” delle meraviglie se il sacro non cessa di stupire – una Vergine guardando dolcemente il Figlio sussurra “è tuttu u patri” – il mito continua a sbigottire con le tante piccole storie che hanno costruito la Storia. Testimonianze orali, canti di tonnaroti, miti imprigionati nella “ceramica”, favole incise nelle anime e sciorinate come le candide tele di Nausicaa. Anche lei principessa di un regno affacciato sulla costa degli dei. L’artifex ed Eos regalano alchimie di bellezza alla stato puro. I tonnaroti non hanno letto le Metamorfosi ma sanno che i Mirmidoni, impazziti per la morte di Achille, abitano da millenni queste acque. Ogni guerriero è un pesce spada da cardare con il segno di croce a quattro dita prima dello sbarco. Il rozzo graffio gli impedirà di vendicarsi. Persefone e Ade sono Meta e Grifone, la fanciulla calabrese che sposa il turco convertitosi per amore.
L’arte di Antonio Montesanti è saperi, sapori, odori percepiti e invisibili: il trionfo dei sensi, sottile penetrante intenso come l’intenso lavoro che ogni opera cela. Un “bumbolo”, panciuto orcetto, si racconta e racconta: contenitore di acqua o vino mostra la fatica dell’uomo sotto il pesante cesto. Arte è un remo, una cazzuola, una lampara, poveri attrezzi “rubati” all’anima antica degli uomini che hanno lavorato, sofferto, gioito, vissuto questa costa abbacinata dal sole e resa traslucida in tutte le stagioni dell’anno e del cuore. Rena e volti “arrostiti” dal sole, alici arrostite alla lampara dal giovane pescatore affamato. Il padre disapprova con un sonoro schiaffo e un secco “m’arruggi a lampara” (arrugginisci la mia lampara). È un “bumbolo” a narrare l’accaduto: ascoltano divertiti i polipi, trasformati in colorati porta mestoli. Una donna forte e decisa separa con il “cerniglio” (rozzo setaccio) le olive dalle foglie al punto che la sua destrezza e maestria sono diventate nella cultura popolare un esempio proverbiale di sfida.
Quando il magister siede alla scrivania, un ruvido tavolone, gli ospiti scoprono il popolo che alle sue spalle occupa la parete. È il mondo di Corrado Alvaro, i suoi calabresi “fatti di coccio”come le statuine votive e i pinakes (tavolette che si appendevano sulle pareti dei santuari o degli alberi sacri e narravano i momenti più drammatici del mito di Persefone; gli esemplari meglio conservati sono quelli rinvenuti aLocri Epizefiri). Donne e uomini silenziosi. Cotti dal sole prima, dal forno dopo: cinquanta dei cento personaggi ai quali il magister vorrebbe dedicare un museo a cielo aperto nelle “rughe” di Pizzo. Abitanti della cittadina simbolo di una libertà incomprensibile per i “contadini del mare” costretti anche a coltivare fazzoletti di terra per sfamare la famiglia. Pizzo e il suo baluardo di tufo e arenaria, imperituro ricordo del processo e della tragica fine di un re, Gioacchino Murat.
Antonio Montesanti aggiunge pagine sempre nuove alle storie antiche, consapevole “prigioniero”, custode e traduttore dei sogni che Aurora continuerà a illuminare. Un tintinnio di alici sul conzo (attrezzo da pesca detto anche palangaro o palamitaro) – refolo o manto di Eos? –, saluta i visitatori. Arrivederci. Sì, presto.
di Nina Fabiani – storica dell’arte
Fotografie di Antonio Montesanti e Franco Carlino