Quando il 23 ottobre 1975 Montale fu raggiunto dalla telefonata dell’ambasciata di Svezia che gli comunicava ufficialmente l’assegnazione del Premio Nobel per la letteratura era a Milano nella sua casa di Via Bigli 15 in compagnia di due amici del “Corriere della Sera”, Gaspare Barbiellini Amidei e Giulio Nascimbeni, e l’immancabile Gina Tiossi, la governante che dalla morte della moglie Drusilla Tanzi, sopraggiunta nel 1963, lo accudiva e gli restò vicina sino alla fine dei suoi giorni. Fu al suo braccio che Montale si appoggiò durante il viaggio per Stoccolma, ma nelle fotografie ufficiali Gina non compare o appare sempre un passo indietro, quasi un’ombra devota al suo fianco. Anche per questa sua discrezione Montale le fu tanto affezionato, così come nella vita ebbe simpatia per tutte le persone umili, vere, sincere, con le quali forse si trovava a suo agio più che con i personaggi importanti o che tali si credevano. Per tornare a quel fatidico giorno in cui il telefono squillò in via Bigli, foriero di una splendida notizia come raccontò Giulio Nascimbeni sul “Corriere della Sera” del 24 novembre 1975, Montale dopo aver risposto al funzionario dell’ambasciata e averlo ringraziato con vari “merci”, tornò in salotto dove, forse anche per cacciare l’emozione del momento, disse agli amici presenti: «Mi viene un dubbio: nella vita trionfano gli imbecilli. Lo sono anch’io?».


Ma come era giunto Eugenio Montale all’ambito traguardo del Nobel? È giusto ricordarlo dal momento che in questo 2025 oltre ai cinquanta da questo importante riconoscimento cadono anche i cento dalla pubblicazione del suo primo libro di poesia: Ossi di Seppia (Editore Gobetti). Eugenio Montale era nato a Genova nel 1896, ultimo di sei figli, in una famiglia della borghesia commerciale. I genitori, Domenico Montale e Giuseppina Ricci, a causa della salute precaria di quell’ultimo nato, lo avviarono a studi tecnici invece dei più lunghi classici, e così, nel 1911, venne iscritto all’Istituto tecnico commerciale “Vittorio Emanuele” dove nel 1915 si diplomò in ragioneria. La sorella Marianna, la prima figura femminile importante della sua vita, ricorda in alcune lettere quanto il più giovane fratello, che lei chiamava Genio (e non solo in quanto contrazione di Eugenio), si infastidisse nell’essere definito “ragioniere”: era ben altro ciò a cui aspirava. Iniziò infatti a coltivare, da autodidatta onnivoro, studi letterari e filosofici frequentando le biblioteche cittadine, specialmente la “Berio” e assistendo alle lezioni private di filosofia della sorella iscritta alla facoltà di lettere e filosofia. D’estate la famiglia Montale “allargata” a fratelli e nipoti si trasferiva in una villa a Monterosso, nelle Cinque Terre, che Montale definisce “la casa delle due palme”, allora un’oasi di bellezza immersa com’era in un parco che giungeva sino al mare; oggi completamente irriconoscibile se non fosse per il cartello che la indica. Lì la famiglia riunita trascorreva le vacanze, in quel paesaggio “scabro ed essenziale”, fatto di muretti a secco, di viottoli, botri fangosi, vegetazione spontanea, di fronte alla quale si apriva un mare “fioccoso e pulsante”.

Fu proprio attraverso quel paesaggio che Montale riuscì ad esprimere in poesia il suo profondo disagio esistenziale di cui divenne il correlativo oggettivo. Nacquero così in pochi anni, una dopo l’altra, le poesie che, nel 1925, decise di raccogliere in una silloge e pubblicare dapprima con il titolo Rottami poi mutato in Ossi di seppia. Così infatti vengono chiamati quei residui calcarei di molluschi una volta viventi che il mare deposita sull’arena e che Il giovane Eugenio poteva osservare passeggiando sulla spiaggia davanti alla sua “casa delle estati lontane”. Quegli scarti di una vita ridotta alla più completa aridità, seccati e sbiancati dai raggi di un sole implacabile, ben rappresentano la sua percezione negativa della vita, quel “male di vivere” di cui scrisse nell’omonima famosissima poesia. Per esprimere in versi tale realtà cercò e trovò un linguaggio nuovo, antilirico, una sintassi prosastica ma anche fonico-simbolica. Con queste parole, in un passaggio della prolusione all’accettazione del Premio Nobel, parlò di se stesso: «Ho scritto poesie e per queste sono stato premiato, ma sono stato anche bibliotecario, traduttore, critico letterario e musicale e persino disoccupato per riconosciuta insufficienza di fedeltà a un regime che non potevo amare». In esse c’è già quasi tutta la sua vita. Pur sapendo bene che veniva premiato per l’opera poetica, in quell’importante momento Montale volle però citare anche tutte le altre sue attività letterarie, il suo “secondo mestiere”: traduttore, bibliotecario, critico musicale e letterario. Omise stranamente di ricordare solo il suo trascorso di giornalista.
a cura di Roberto Besana – Testo di Adriana Beverini
Il curatore dell’articolo, Roberto Besana, ringrazia per la preziosa collaborazione Gianfranca Lavezzi, professore ordinario di Letteratura italiana all’Università degli Studi di Pavia e il Centro manoscritti dell’Università di Pavia dove sono conservati gli originali qui riprodotti
Immagine di copertina: Oggetti appartenuti a Montale: la macchina da scrivere Olivetti “lettera 22”; due paia di occhiali; il bastone donato da Filippo De Pisis; due uccelli impagliati regalati da Goffredo Parise: il martin pescatore e l’upupa. Accanto, testa in bronzo di Montale scolpita da Lello Scorzelli. Fotografia: Centro manoscritti – Università di Pavia