Con la sua collezione di oltre novemila pezzi, il Museo di arte religiosa Juan de Tejeda costituisce uno dei musei di arte religiosa più importanti del Sud America. Ci troviamo nel cuore della città di Córdoba, in Argentina, all’interno di uno spazio che vanta un passato stratificato, tra i più antichi dell’intera città.

Città che ha una data di nascita ben precisa: è il 6 luglio del 1573 quando il conquistatore spagnolo Jerónimo Luis de Cabrera fonda Córdoba de la Nueva Andalucía, sulle rive del fiume Suquía. Sceglie di denominarla come l’omonima città spagnola, forse in omaggio al luogo natale della moglie. Ad accompagnare Cabrera nella fondazione era stato anche Tristan de Tejeda, padre di quel Juan de Tejeda y Mirabal a cui è intitolato il museo. Questi decide di costruire la propria abitazione vicino agli edifici più importanti dell’epoca, vale a dire la Cattedrale e il Cabildo, oggi entrambi monumenti storici nazionali. Giungiamo quindi alle origini di questo luogo che nasce come abitazione, per poi diventare monastero, e infine museo di arte religiosa.

A raccontare la sua storia sono le stesse pareti nelle quali troviamo iscritti i versi di una poesia di Luis José de Tejeda, figlio di Juan, considerato il primo poeta creolo (termine con cui si indicano i discendenti europei nati nel territorio colonizzato dagli spagnoli in America). La trasformazione della casa in un monastero si deve però a un evento che vede protagonista la figlia minore di Juan, colpita improvvisamente da una grave malattia. Per questo il padre si rivolge alla santa spagnola Teresa di Avila promettendole, in cambio della salute della figlia, di fondare un monastero a lei dedicato. La figlia guarisce, ma Juan sembra dimenticarsi della promessa, tanto che poco dopo la giovane si inferma nuovamente. Il padre allora rinnova la promessa e questa volta la mantiene: fa costruire un monastero e una chiesa dedicati alla Santa, e due delle sue stesse figlie diventano monache. Siamo nel 1625, Santa Teresa era stata canonizzata solo da qualche anno, e tre anni dopo il monastero viene inaugurato.

Poco dopo ad ammalarsi è lo stesso Juan che, per continuare a seguire le celebrazioni liturgiche, fa costruire all’interno della sua stanza una sorta di finestra comunicante con la chiesa. Questo spazio è incorniciato da una struttura in legno decorata con tele e tavole dipinte da autori diversi. Significativo è il nome che il costruttore della struttura lascia su questa: probabilmente si tratta infatti di uno schiavo che, insolitamente, sceglie di firmarsi. Alla morte di Juan anche la vedova entra nel monastero, cosicché a formare il primo nucleo di monache sono le donne della famiglia del fondatore alle quali se ne aggregano altre. È un monastero di Carmelitane Scalze, dunque il nome viene dal Monte Carmelo in Palestina, che conducono una vita di clausura. Vi sono però alcuni luoghi comunicanti con l’esterno: oltre alla finestra nella stanza di Juan, a comunicare con la chiesa adiacente sono anche i confessionali, attraverso i quali le monache potevano confessarsi senza per questo dover uscire dal monastero.


Gli unici rapporti con il mondo esterno avvenivano tramite il torno giratorio, un mobile che, girando, permetteva lo scambio di oggetti. Per quanto riguarda invece i colloqui, le monache potevano ricevere una visita al mese e da parte di una sola persona, che avveniva tramite una doppia rete in legno coperta da tende e in presenza di una testimone.

Il monastero conosce degli ampliamenti non pianificati nel corso del tempo: sostanzialmente si aggiungono stanze secondo le necessità. Ancora oggi le altre zone del monastero sono abitate dalle monache, che però non conducono più una vita di clausura come in passato. D’altro canto la parte che ospita oggi il museo era stata abbandonata quando, nel corso del XX secolo, gli alti edifici costruiti tutto intorno finiscono per invadere l’antica privatezza della vita di clausura.

Il museo, al quale si accede tramite un portone dove si legge la data 1770, si articola attorno a un cortile detto jardín de los naranjos per via delle piante di agrumi che vi crescono. Si tratta di limoni, aranci e mandarini, ma anche di un melograno, pianta simbolica per la religione cristiana, i cui chicchi ricordano l’unione della comunità dei fedeli. Gli agrumi erano invece utilizzati dalle monache per produrre marmellate e dolci, sia per sussistenza sia per la vendita. Era quindi una vita condotta all’insegna della semplicità, e questo è testimoniato dalle stesse celle delle monache, l’unico spazio in cui potevano godere di privatezza, essendo stanze singole. Una cella si incontra anche salendo all’interno della torre campanaria; veniva però utilizzata per penitenze e periodi di isolamento. Oggi le antiche celle di clausura ospitano gli oggetti della collezione, la quale si compone di donazioni della Cattedrale, oggetti appartenuti all’antico monastero e donazioni esterne. Tra questi troviamo anche i “fanales”, tipici della cultura sudamericana: si tratta di campane di vetro all’interno delle quali si conserva la statuetta di una figura santa decorata con ghirlande di fiori, attributi e ex voto, questi ultimi sono doni lasciati dai fedeli in cambio di un miracolo ricevuto.

Vi sono poi sculture lignee di figure sante, dette imagen de vestir o imagen de candelero, prive di vestiti per mostrare la loro struttura: se il volto, le mani e i piedi sono ben lavorati, il busto è più semplice, mentre è del tutto assente la parte inferiore del corpo, dato che è destinata ad essere coperta con abiti che vengonocambiati in base alle celebrazioni.

Un’altra tipologia di scultura in legno che incontriamo nella collezione è la imagen de bulto, vale a dire una scultura tridimensionale che può essere vista da ogni lato. Da ricordare è anche la croce con la firma originale di Sant’Ignazio di Loyola, fondatore, nel 1540, della Compagnia di Gesù. Compagnia di missionari con l’obiettivo di diffondere la fede, i Gesuiti a Córdoba rivestono un ruolo di primo piano edificando chiese e scuole, plasmando così la cultura del luogo. Sono sempre loro a fondare l’Università, una delle più prestigiose e antiche di tutto il Sud America, grazie alla quale il nome della città è spesso affiancato dall’aggettivo docta. Ancora oggi, infatti, Córdoba rappresenta un punto di riferimento per l’istruzione che attrae giovani non solo da tutto il paese, ma addirittura a livello internazionale.

È proprio all’Ordine della Compagnia di Gesù che apparteneva un altro importante oggetto della collezione del museo: il primo orologio meccanico della città. Consiste in una macchina in ferro della metà del XVIII secolo che ogni mezz’ora ricordava il passare del tempo. Espulsi i Gesuiti, l’orologio entra nella Cattedrale fino a quando non viene sostituito con un altro, e una volta fondato il Museo Tejeda diventa parte della sua collezione.

Il Museo di arte religiosa Juan de Tejeda è quindi un luogo in grado di raccontare la storia della città, uno spazio ricco di arte e religione, con un passato stratificato e in continua evoluzione. Oggi è uno spazio di dialogo, dibattito e incontri per conoscere il passato con una proiezione verso il futuro.
di Lisa Pietrini
Immagine in copertina: Finestra comunicante con la chiesa
Bibliografia e sitografia:
De Denaro, Liliana, Buscando la identidad cultural cordobesa, Tomo I, Córdoba 2008.
Infante, Victor Manuel, Museo Juan de Tejeda, Collección Historia de laArquitectura de Córdoba – N°4, Córdoba 2000.
Museo de arte religioso Juan de Tejeda, El museo, https://www.museotejeda.com/#!/-el-museo/ (ultima consultazione il 7/8/2025).
Sothra, Córdoba: arte, religione e giovinezza universitaria, Córdoba: arte, religione e giovinezza universitaria (ultima consultazione il 6/8/2025).
