Avere un pensiero completo sulla città significa riflettere sulla natura e sulla condizione umana, visto che la città può essere considerata, a ragion veduta, la più grande invenzione dell’uomo e il più complesso fenomeno culturale di ogni tempo. Peraltro, gli uomini non sono più in grado di vivere in altri luoghi e le città ormai ospitano più del 50% della popolazione mondiale. Cambiano di continuo e con una tale rapidità da non permetterci più un naturale adattamento alla loro vita, e quello a cui stiamo assistendo sembra una strada senza ritorno.


Le città potrebbero tranquillamente fare a meno di noi o, all’opposto, essere noi non più all’altezza della loro sfrenata attività. Ormai sono metropoli dalla tecnologia così spinta – e per questo vengono chiamate “smart” – da illuderci della loro intelligenza e della possibilità che possano gestire anche la complessità della vita. Le stiamo immaginando capaci di addizionare e accelerare informazioni su informazioni, o essere più efficienti in funzione della loro dimensione, visto che le città grandi consumano proporzionalmente meno di quelle piccole; o ancora, abilitate magari a ridurre le contraddizioni umane, annullandone le diversità. In primis la loro e dopo la nostra.

Ma ogni diversità di cultura che scompare riduce la nostra cassetta degli attrezzi, utile per trovare gli strumenti necessari alla sopravvivenza. La domanda, a questo punto, è quella di chiederci a cosa servano le città e, se siano ancora i cittadini al centro della loro attenzione, perché l’invadenza della tecnica e del pensiero calcolatorio ha ridotto la realtà a ciò che è misurabile e ha preso vigore l’idea del futuro come tecnologia, che per la città potrebbe sintetizzarsi con “machine à habiter”, il motto di lecorbuseriana memoria. La vita umana però non può essere ridotta a ingranaggio meccanico; in realtà è solo “teatro”.

di Claudio Lucchin
Immagine in copertina: ©Diego Bardone