Sul finire di febbraio 2025 sono stati svelati al grande pubblico ulteriori e maestosi affreschi provenienti dall’antica città di Pompei, sommamente sigillata in un tempo eterno dall’eruzione del 79 d.C. Gli scavi per tempo condotti nell’Insula dieci della Regio IX (presso le antiche rovine, oggi annoverate come Casa del Tiaso) hanno fulgidamente restituito la bellezza di una megalografia popolata di satiri dalla gestualità e vitalità frenetica, che accompagnano la protagonistica presenza di sensuali baccanti cacciatrici, in preda al sogno vivifico del cháos. Muovendo in uno scenario che ha tanto da condividere con la tragedia euripidea e il ritratto delle sue donne fuggite da Tebe per correre libere nei meandri del dio della festa, gli affreschi pompeiani rimembrano e vivono della curiosità intellettiva, che un tempo illuminò anche il grande Antonio Canova.

Lungo un Settecento mosso dalla sete della più profonda conoscenza (ricercata soventemente tra gli scavi partecipativi e i solchi misterici di un tempo andato), il maestro di Possagno fu un grande estimatore di silhouettes vivifiche e donne danzanti, impresse lungo i muri di siti preziosi, come quelli della già annoverata Pompei, nonché della pregevole Villa di Cicerone. Nelle grottesche e nei ritratti delle Menadi, Canova sembrò difatti rintracciare le movenze spontanee e libere delle ballerine e popolane che, nel promontorio del quotidiano, soleva ammirare per la genuinità verace.

Come illumina Marina Longo nella bella raccolta di saggi in ode del maestro veneto, edita nel 2023 dalla casa editrice L’Asino d’oro con la curatela di Anna Maria Panzera, Antonio Canova ebbe sempre caro il confrontarsi con un mondo e molteplici presenze, che correvano oltre lo spazio dato dell’atelier d’artista. Fu nella gioia delle feste popolane e nella spettacolarità teatrale, che lo scultore di opere eterne incontrò sovente il soffio vivifico dell’ispirazione, infondendo così nelle sue creazioni tanta dell’energia che lo aveva illuminato al cospetto di un ballo aggraziato e dalle movenze armoniche. Figurando e, probabilmente, rimembrando ad orecchio il ritmo di una danza intenta a far rivivere le protagoniste delle grottesche a lungo studiate, Antonio Canova diede vita ai bozzetti per lo studio delle sue Danzatrici, imprimendo su carta la portata di una ricerca vissuta e appassionata. Come le Menadi di un tempo andato, le silhouettes canoviane si stagliano in tutta leggiadria su di un fondo scuro, che ne fa risaltare la raffinata vivacità.
A tal proposito Longo, ricorda: Antico e popolare, primitivo e naturale sono i binomi cardine della nuova estetica, artistica in generale, coreutica nello specifico. E dagli anni Novanta – lo suggerisce anche la studiosa Flavia Pappacena – è proprio Canova, ormai ammirato a livello internazionale, che, rielaborando i canoni dell’antico in modo assolutamente personale e originale, influisce sulla costruzione di nuove figurazioni nel balletto pantomimo: mani sui fianchi, con dita che afferrano il velo, oppure braccia graziosamente sopra la testa, con mani aperte e distese o a ventaglio, schiena girata verso lo spettatore. (Longo; p.28)
Nelle parsimoniose serate, che videro lo scultore allontanarsi dal suo spazio di lavoro per presenziare in qualche modo alla vita mondana del suo tempo, vi fu la partecipazione agli originali spettacoli organizzati da un affezionato e ricco committente come Lord William Hamilton e la sua intellettuale e bella sposa Emma Hart. Sulla scorta di un’imponente devozione alla più attenta e viva osservazione dei corpi, nell’operato del Canova spicca, senza ombra di dubbio, l’aver assistito a performance emancipate e curate nei minimi dettagli proprio da Lady Hamilton. Occorre, allora, soffermarsi sul profilo biografico di una giovane donna di umili origini che, giungendo a Napoli a seguito delle nozze con l’ambasciatore britannico, diede nuovo impulso e linfa vitale alla diffusione di prassi artistiche e performative che riscossero gran successo nei più raffinati circoli nobiliari, intellettuali e privati. Lady Hamilton per tempo si dilettò nella messa in opera di veri e propri quadri viventi che annoveravano il canto, il richiamo al mito e alla danza, illuminando così le serate d’incontro di una élite assai colta e finendo, imprescindibilmente, per incuriosire un racconto assai più diffuso nel chiarore popolare del giorno. Emma, divenuta la beniamina di molti artisti (tra cui Élisabeth Vigée Le Brun, che in suo onore realizzò un bellissimo dipinto richiamante l’essenza profonda della baccante), alla morte del consorte, nel 1791, diverrà l’amante del noto ammiraglio Nelson, mantenendo la sua residenza a Napoli sino al 1805, anno in cui farà definitivo ritorno in Inghilterra.

Nelle pagine offerte in Canova «Non devesi però tacere della farfalla», ad esser percorso dai tre studiosi – assieme agli aneddoti e all’iter progettuale del gran maestro –, è la portata e il ruolo imprescindibile che specifiche figure femminili ebbero per la sua vita e la sua stessa creazione. Assieme ad una figura mitica e a tratti imperscrutabile come una dea, Lady Hamilton, occorre ora ricordare l’influenza, dolce e fraterna, dell’assai cara Luigia Boccolini di Ravenna. Luigia, con il consorte Girolamo Giuli e il giovane apprendista scultore Antonio d’Este, fu la più preziosa scheggia luminosa approdata nella vita del Canova. Nell’incontro e nella condivisione di estetiche e ideali, i quattro amici divennero presto la famiglia sognata di un uomo, che per assoluta fedeltà e dedizione al proprio lavoro, aveva consapevolmente accantonato l’idea di qualsiasi altro sposalizio, che non fosse quello con la sua stessa arte. Tra spazio domestico e studio d’artista, la più alta condivisione di idee si mescolava alle istanze del quotidiano, rendendo quella stessa realtà terreno assai fertile per la creazione.
Sostiene lo storico Davide Trevisan: «Un certo sapere pratico e un certo intuito, nonché una fine sensibilità artistica caratterizzavano la personalità di Luigia Giuli, come testimonia il carteggio che ha intrecciato per suppergiù un quarto di secolo con importanti personalità legate a Canova». Tra la donna e l’artista nasce un legame unico e speciale, capace di influenzarlo anche nelle scelte estetiche. Luigia, che si presenta come semplice governante, è in verità una pittrice di talento, che esegue ritratti molto apprezzati dello scultore ed è, a sua volta, ritratta da lui. Zulian, profondamente colpito da un suo dipinto, esclama: «Il mediocre non può esser vicino a Canova». (Carlevaro; p.97).Nei giorni che per impegni lavorativi ed eventi vari vedevano Antonio Canova allontanarsi, una gran quantità di epistole rintracciate testimonia l’affetto e la vicinanza espressa per mezzo delle parole; Luigia fiancheggia e ispira le grandi creazioni del maestro, nella consapevolezza attiva di esser ella stessa padrona del far dell’arte. Il connubio intellettivo ed emotivo con la donna diverrà tanto forte e indissolubile da spingere Antonio d’Este ad allontanare da casa e per qualche tempo il maestro,nel momento in cui a Luigia Giuli verrà refertato un male incurabile. La sua morte «costò al cuore del Canova pene amarissime, e gli fece dire: […] “io non saprei chi sostituire a Luigia per l’arte mia” ed il nome di Luigia gli restò sulle labbra fino [alla morte] […]. “Due madri ho avuto, l’una mi ha messo al mondo, l’altra mi ha governato e mi ha assistito con le sue grandi e nobili idee”». (Longo; p.21)
Sulla scorta degli affetti e delle più nobili aspirazioni riguardo la creazione, tra le pagine del libro trova ora spazio il diletto per il disegno, sperimentato dal Canova sin dalla più tenera età, quella particolarissima propensione allo studio accorto del tocco della luce e del suo stagliarsi sulla superficie marmorea e, ancora, la dedizione alla conoscenza delle lettere e della filosofia, che sempre sarà coltivata assieme ad una raccolta cospicua di volumi e cataloghi. Dagli originalissimi marchingegni mobili, che alla scultura donano la possibilità del più scenografico movimento, sino all’orizzonte di nuove visioni sul far dell’arte, Canova appare quale sommo creatore di un mondo conscio riguardo una modernità tutta da scrivere. Il laboratorio d’artista si propone come uno spazio di polvere e possibilità; in esso il maestro sogna, studia, aspira, costruisce. Molti dei collaboratori e amici saranno concordi nel documentarne la più ferrea dedizione: «Non aspiro che ad una illusione».
E, terminato un lavoro, fa fatica a separarsene: «Ei seguitava tuttavia ad accarezzarla [l’opera], domandato a che ormai non la lasciasse, rispondea: non v’ha cosa per me più preziosa del tempo, e ognuno sa com’io ne faccia economia: nonostante quando sono per finire un lavoro, e quando è già terminato, vorrei recarlo sempre più innanzi», perché c’è sempre un ‘oltre’ verso cui vorrebbe andare. (Carlevaro; p.61)

Conducendo in ultimo un’analisi, che con attenzione e maestria illumina il fare supremo di un genio affidato universalmente ai grandi e piccoli volumi della storia dell’arte, Anna Maria Panzera, Marina Longo e Alessandro Carlevaro rendono onore alla vita dell’uomo, per mezzo di una documentazione evocante sprazzi di vita assai essenziali per comprendere il fiume carsico sotteso alla sua più mirabile creazione. Nelle oltre duecento pagine che condensano il volume, le parole aprono ad una immedesimazione lucida, trasudante di emozioni e viva empatia. Sembra allora di tornare alla lezione del maestro di Possagno, padre mirabile di un fare che per mezzo del gesto ha saputo instancabilmente parlare all’animo«senza soccorso d’alcun manierato artifizio».

di Floriana Savino
Immagine di copertina: Autoritratto di Antonio Canova, Museo Correr, Venezia – Fotografia di Angelo Aldo Filippin
