Il disegno è l’espressione più diretta e spontanea dell’artista: una specie di scrittura: rivela, meglio della pittura, la sua vera personalità.
(Edgar Degas)
Per Cennino Cennini, cui dobbiamo il primo libro organico sulla produzione artistica, il disegno era “fondamento di tutte le arti” e rappresentava il momento formativo centrale per l’artista. Per i neoplatonici umanisti, il disegno era inteso come proiezione e visualizzazione dell’idea formata nella mente dell’artista, il momento primo e supremo della genesi dell’opera d’arte.

Non poteva essere diversamente visto che, eredi ed esegeti del pensiero platonico, consideravano di maggiore pregio ciò che è vicino all’idea e di valore inferiore ciò che è vicino alla materia. Per loro, il disegno è atto mentale, più astratto dell’opera conclusa, pittorica o scultorea o architettonica che fosse.
Giorgio Vasari, il primo storico dell’arte e non a caso fondatore dell’Accademia del disegno di Firenze nel 1563, considerava il disegno “padre” delle tre arti (pittura, scultura e architettura), proprio per la sua funzione di rendere visibile l’invisibile, di materializzare l’idea dell’artista; in altre parole, lo identificava con l’ideazione e l’invenzione. Dopo la lezione vasariana, il disegno non viene più semplicemente considerato come una capacità acquisibile con lo studio o l’esercizio ma quasi alla stregua di un dono divino.

Particolarmente suggestiva e illuminante è la posizione di Federico Zuccari, primo Principe nel 1593 della celebre Accademia di San Luca di Roma, il quale si spingeva ancora oltre nel sostenere che, all’opera, preesisteva sia un’immagine spirituale formatasi nell’anima dell’artista – e chiamava questa immagine spirituale “disegno interno” –, sia il disegno esterno, che del primo è la realizzazione materiale attraverso la linea. Il disegno, in questa concezione, diventa espressione del talento intellettuale e immaginativo dell’artista che necessariamente precede la realizzazione estetica esteriore.

Leonardo da Vinci, che era interessato precipuamente agli aspetti più propriamente scientifici, vedeva nel disegno un formidabile strumento di conoscenza e di indagine della natura, ritenendolo non soltanto il fondamento di tutte le arti ma anche lo strumento di tutte le scienze: anatomia, botanica, ingegneria, fisiognomica, geologia, urbanistica, meccanica. Non disgiuntamente da questa visione applicativa, Leonardo pose in luce anche la dimensione progettuale del disegno.

Michelangelo considerava il disegno un campo di assoluta libertà perché poteva dare forma a qualunque sua idea senza confrontarsi con la materia perché era consapevole che tra l’idea e la sua materiale realizzazione vi era necessariamente uno scarto di perfezione, maggiore nella prima e minore nella seconda.
Con Raffaello, poi, si ha la prova plastica, concreta, di come l’artista, diventato ormai un intellettuale a tutto tondo, si concentri solo sulla parte ideativa che si esplica nella creazione dei disegni e lasci ai suoi collaboratori la realizzazione delle opere che da quei disegni sono tratti. L’idea di separare invenzione ed esecuzione avrà una grande fortuna e per molti aspetti continua anche fino ai nostri tempi.

La mia mente andava a questi pensieri quando i miei occhi compulsavano i disegni di Max Marra qui riprodotti, un artista che, grazie ad un lungo e coerente quotidiano lavoro, si è conquistato la stima e l’apprezzamento di tanti e di cui conosco l’ormai ultra-quarantennale proposta artistica che non esito a definire multiforme, poliedrica, spesso sorprendente, mai attardata, per la varietà di tecniche e di temi, e che ha dato vita ad un pluralismo progettuale e formale che trova la sintesi unificante in un linguaggio non solo personale ma autentico.

Di Max Marra è nota la sua intima quanto naturale vocazione alla materia, una persistente inclinazione che ha dato corpo e anima a celebri e doviziose serie di opere che, per la loro stesura lessicale e narrativa, sono diventate paradigmatiche della sua produzione e mi riferisco, ovviamente, agli umili “Scarti”, alle laceranti “Pance ferite”, alle poetiche “Dune d’oriente”, ai contemplativi cicli di “Cosmos”, ai gestuali “Pacchetti”, alla mistica di “Francesco è solo”, all’amara denuncia di “Appunti sul Ponte”. Tutte opere nelle quali Marra ha inteso trasferire il suo pensiero artistico, etico, sociale e spirituale sulla condizione umana non disgiunto da uno sguardo oscillante tra lo sdegnato e il soccorrevole, ma sempre scevro da ogni atteggiamento sentenzioso.

Eppure, in questi cicli, inni alla materia, si percepisce bene – ancorché inabissata tra la iuta, il catrame, la corda, il ferro, la stoffa, la cera, il carbone –, l’uso di una tavolozza cromatica selezionatissima e sorvegliata, l’impronta primigenia e formativa, direi quasi aurorale, del disegno, da cui tutta l’opera di Marra trae origine. Lo si vede negli equilibri delle composizioni polimateriche, nell’appropriazione degli spazi, nella stessa distribuzione dei colori, nelle partiture segniche organizzate come contrappunti musicali, nella dialettica tra spazi chiusi e aperti, tra pieni e vuoti.

Il disegno è stato ed è il fedele e inseparabile compagno di vita di Marra, la sua stessa idea di organizzare il suo mondo immaginifico, la forma stessa della res, l’immagine spirituale che l’artista ha dentro di sé, per riprendere la definizione di Federico Zuccari. È attraverso di esso che riusciamo a penetrare nel suo ricco laboratorio mentale, a leggere e interpretare i tanti fili che compongono la trama di una creatività sognante e visionaria che però ha sempre un riferimento ancorato alla realtà visibile, a tutto ciò che potremmo definire figurale. Attraverso il disegno, Max Marra crea, alla stregua di un demiurgo, il suo mondo, costituito da personaggi singolari, ibridi tra umanità e animalità, che assumono a volte i ruoli di alieni e di totem, a volte di manichini, a volte di maschere, a volte di caricature di un’umanità alienata e abbruttita che ha smarrito la legge dell’amore, della dignità e del rispetto per diventare preda consenziente dell’avidità, del potere, della sopraffazione, dell’ipocrisia.

Si tratta di un disegno che è memore della intensa stagione dell’espressionismo tedesco degli anni Venti del secolo scorso, in primis della lezione, tecnica e antropologica, di George Grosz, di cui riprende il segno incisivo, le linee forti e spigolose di forme semplificate, caratterizzate da forti contrappunti chiaroscurali e vivificate da un energico dinamismo. Il suo è un disegno “di montaggio” nel senso che è la linea stessa, tracciata sul foglio, a guidare l’artista verso la composizione finale, un disegno che prende forma mentre lo si fa.
Il disegno è la sua forza tranquilla, libera e catartica che prorompe prepotentemente dal suo occhio interno e arma quotidianamente la sua mano educata da un perenne esercizio cui questo artista è sempre stato intelligentemente obbediente; una sorta di impulso irrefrenabile vissuto come completamento del suo stare nel mondo. Marra sa che la materia è ostica, sfuggente, pone ostacoli e attriti al pieno sviluppo dell’idea e per questo si affida al disegno che, permettendogli di visualizzare nitidamente l’idea, lo predispone ad affrontare in maniera più strutturata l’inevitabile lotta con la materia.

Marra, pensando per mezzo di immagini e raffigurazioni, ha dato vita ad un vocabolario grafico denso di inventiva e audace nella sintassi, in ciò concorde con la missione che Daniel-Henry Kahnweiler, il grande mercante di Pablo Picasso, riconosceva all’arte, ossia quella di “creare l’universo visivo dell’Umanità”.
di Domenico Piraina
Le fotografie delle opere di Max Marra sono di Luigi Angiolicchio
Immagine in copertina: dall’album “Chine”, 2021
