“Appena lasciamo la nave non possiamo fare a meno di stupirci del movimento e della gaiezza di questa città di duecentocinquantamila abitanti, piena di negozi e di rumore, meno convulsa di Napoli e tuttavia non meno piena di vita. La città, adagiata al centro di un vasto anfiteatro di montagne nude, di un grigio bluastro qua e là venato di rosso, è divisa in quattro parti da due grandi strade diritte che si incrociano nel mezzo. Da questo quadrivio, in fondo a tre di quei lunghi corridoi di case, si scorgono le montagne, mentre al termine del quarto si intravede la macchia d’azzurro intenso del mare, che pare vicinissimo, come se la città vi fosse caduta dentro. Vedo dei carretti, piccole scatole quadrate, appollaiate molto in alto su ruote gialle, sono decorati con pitture semplici e curiose, che presentano fatti storici, avventure di ogni tipo, incontri di sovrani. Persino i raggi delle ruote sono decorati. Il cavallo che li trascina porta un pennacchio sulla testa e un altro a metà della schiena. Quei veicoli dipinti, buffi e diversi tra loro, percorrono le strade, attirano l’occhio e la mente e vanno come dei rebus che viene sempre la voglia di risolvere”. Così Guy de Maupassant descriveva il carretto siciliano, “un rebus che cammina”, nella primavera del 1885, quando sbarcò a Palermo e ne fu immediatamente colpito.

Fotografia di Paolo Staccioli

Fotografia di Paolo Staccioli
Nato come strumento di lavoro, come la gondola per Venezia, il carretto siciliano rappresenta indubbiamente l’espressione più folcloristica della Sicilia, icona che rispecchia la complessità dell’isola in cui è stato creato. Quelle “piccole scatole quadrate” sono i neonati mezzi di trasporto creati per percorrere le “regie trazzere” volute dal governo borbonico nel 1830. Inizialmente si trattava di strutture semplici, dalle tinte crude color terra con il semplice scopo di salvaguardare il legno dalle intemperie, dalle ruote ampie per potere superare terreni scoscesi e tortuosi, trainati da soggiogati equini con il pelo segnato dalle bardature e guidati dai “carrettieri”, uomini che viaggiavano in solitudine, arsi dal sole ed esposti alle intemperie. Questi uniti dalla fatica e dalla malinconia cantavano e incontrandosi nei fondaci, dove si rifocillavano, davano luogo a vere e proprie competizioni canore. Il vincitore acquisiva fama e rispetto. Un “Talent” ante litteram.

Fotografia di Paolo Staccioli
“Tira muleddu miu, tira e cammina, cu st’aria frisca e duci di la chiana, lu scrusciu di la rota e la catina, ti cantu sta canzuna paisana cu stu cavaddu curaggiusu e vulinteri, puru supra a luna pozzu acchianari, acchianaca ‘ddacc’è la me bedda, affacciata m’aspetta a la vanedda. Chistu è lu cantu di lu carritteri ca nuddu si lu po scurdari. Cantu canzuni di milli maneri, canzuni chi vi fannu ‘nnammurari”. Questa, invece, è la descrizione di Giuseppe Pitrè, studioso palermitano di folclore e tradizione, che raccontava il viaggio del carrettiere come un’odissea, al punto che, prima di partire, era consuetudine confessarsi, prendere la comunione e perfino fare testamento!

Fotografia di Antonio Calabrese
di Catia Sardella – https://arteallalloro.blogspot.com/
Fotografie di Antonio Calabrese e Paolo Staccioli
La fotografia di copertina è di Paolo Staccioli