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N gradi di separazione. Confronti tra arti visuali e musica elettronica

Palazzo Capizucchi a Roma ospita il progetto N gradi di separazione, che presenta confronti, riflessioni e opere, tra arti visuali e musica elettronica, di EPVS, Sebastian Vimercati, Shay Frisch, Domenico Romeo, Pietro Bonomi, Alberto Timossi, Marco Timossi, Eugenio Scrivano (Di Unexpected Guest). La curatrice, la storica dell’arte Michela Becchis, espone il progetto con il seguente testo critico.

L’ora serrata è una zona di confine, una parte assai importante della topografia della visione, la giunzione tra le aree più sensibili dell’occhio. L’una, la retina che vede colori e la luce e passa informazioni elettriche alla mente; l’altra, il corpo ciliare, che si muove, vibra, si contrae e si distende per la messa a fuoco. Ecco, è difficile capire se sia l’arte visiva la retina e la musica elettronica il corpo ciliare, ma è certo che condividono un confine attivo, indispensabile: la loro ora serrata. L’ora serrata è all’interno dell’occhio una linea sinuosa, non demarcazione netta tra le due capacità, uno spazio visibilissimo e al tempo stesso sottilissimo. Non è un caso che si sia scritto “topografia della visione” perché potremmo chiederci quanto allora distano queste due zone di esperienza artistica così oggettivamente diverse e diversamente esperibili e dove si trovi invece quella zona in cui l’una diventa enclave o partecipe dell’altra. Oppure dove il lavoro creativo, proprio come quello che proviene dalla relazione fra retina e corpo ciliare, che incastra struttura e sistema simbolico, trovi un punto di sovrapponibilità o almeno di margine condiviso. È qui che entra in gioco la definizione di N gradi di separazione perché è indispensabile sapere quanto sia praticabile quel confine. Ma indispensabile è altrettanto sapere che quella sinuosa linea sottilissima, quasi come una parentela di I grado – come è noto la più stretta, la più problematica –  è fatta non da un rapporto tanto netto da apparire cesura al mondo, ma da un complicato sistema di passaggi, di ricerche, di confronti, di scambi, di cancellazioni che conduce infine a un reciproco riconoscimento. Non è importante sapere se tra arte visiva e musica elettronica vi siano tutti i famigerati 6 gradi per mettersi in contatto. Forse non è neanche fondamentale che in questa mostra molti tra coloro che hanno contribuito a crearla siano legati, appunto, da una parentela che spesso genera molta energia proprio quando i due poli si allontanano. È più importante sapere che ci si muove dentro un unico orizzonte che tale rimane se contempla molte diversità che non possono che essere riunite sotto l’incognita N, necessaria affinché il processo rimanga aperto e produttivo. Si potrebbe dire che qui si intesse un altro tipo di parentela, quella che Jacob Von Uexküll definì “Umwelt”, un’infinità di mondi percettivi che creano relazioni altre in una proliferazione che solo l’arte sembra ancora oggi capace di produrre. Oppure parlare di quella “individuazione reciproca” messa a fuoco da Marie-Louise von Franz che non è un legame magico o di consanguineità, ma piuttosto una relazione trans-personale di scelta.

Nel 1980, Valerio Magrelli intitolava una sua raccolta poetica Ora serrata retinae, raccolta che avrebbe agito come grimaldello per far saltare certi schemi della poesia precedente a quel libro, certamente di valore altissimo, ma ormai abbandonati a dannosi epigoni. Non si è qui per esaminare quel cambio di passo poetico, ma per fermarci un attimo su una constatazione che apre la raccolta L’unica cosa che si profila nitida è la prodigiosa difficoltà della visione. In cui la difficoltà della visione si riferisce a un vedere le “cose”, se non per le “cose” in se stesse, nella loro certezza di oggetti reali, interrelati e in relazione con chi guarda.  Senza – e qui si torna a questa mostra – scalfire, ma anzi accostandoci con particolare cura alla sostanza delicatissima della problematicità che vive in quella linea di confine, qui si intende camminare lungo tutto il suo perimetro e, grazie alle esperienze artistiche che vengono accostate, cercare di capire se esista una reciproca relazione fra modi di fare arte troppo spesso pensati come impermeabili. Insomma permettere a chi entrerà di vedere diversamente ciò che per suo statuto è visibile, ma anche di vedere il suo imprescindibile essere “cosa” di un’arte che spesso il pensarla immateriale e perciò invisibile, la rende talmente “difficile da trasformarla in banale” come si disse della musica di Mahler. È quindi sull’ora serrata del visibile che si gioca questa mostra, sul suo capovolgimento rispetto a ciò che troppo spesso pensiamo celato e cioè il senso attorno a cui l’arte si arrovella. Un senso che troppo spesso non ci si affatica a vedere ma solo a guardare nelle arti visive, un senso che si racchiude in un suono che scardina la tonalità usando proprio la sua forza visionaria e visiva del suo porsi come rumore. Lasciando il prosieguo di queste parole al dialogo con gli artisti, credo sia necessario chiudere questo primo momento con un punto di riflessione dirimente. Esiste sempre una ulteriore linea di separazione, quella tra il significato attribuito all’opera dall’artista e quello costruito davanti all’opera da chi ne fruisce. Su quella linea, in questo caso si può arrivare a pensarla come una impercettibile linea di frattura, vive l’agire dell’artista. Più precisamente, vive il processo creativo dell’artista. Il suo rapporto con il mondo è un dispositivo che attiva un’urgenza che è sì concettuale, ma che in ogni artista è soprattutto trasformazione della materia. Una linea sottile come quella che portiamo dentro gli occhi, ma appunto assai più impervia, fatta sempre di materia, di sue metamorfosi, di “cose”, di pensieri che assumono sostanza, sempre assolutamente tangibile e in cui è indispensabile porre attenzione e cura perché possa diventare il vero piano condiviso che gli artisti mettono a disposizione del mondo.