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Andrea Doria: la Grande Dame degli abissi

Settembre 2022. Il giorno che abbiamo lasciato le cime a terra a Montauk, qualche ora prima di completare il carico e rizzarlo, stavo leggendo i Diari Antartici per ingannare l’attesa. “Finalmente siamo in marcia dopo quattro anni di preoccupazione, di lavoro. Auguro a tutti noi il successo perché ho dedicato a questa impresa tutte le mie forze.”

Oggi mi trovo in mezzo all’Oceano Atlantico, finalmente ancorato sopra l’Andrea Doria. È giunta l’ora di compiere delle scelte. Arrivare fin qui è stata l’impresa. Ora bisogna raccontare la nave, ma anche il relitto. La sicurezza è un aspetto a cui spesso ho pensato prima, ma soprattutto durante queste immersioni sull’Andrea Doria. I problemi ad essa connessi dipendono in larga parte dalla distanza della costa: 45 miglia. La corrente è sempre presente e forte, determinata a strapparti dalla barca per farti ritrovare a molte miglia di distanza, in mezzo a un oceano sconfinato e ruvido. La profondità è un problema relativo se non legato al tempo di fondo, ovvero al tempo di decompressione. Anzi, durante la seconda immersione che ho effettuato sul relitto, la visibilità era così scarsa che ho deciso di tagliare il tempo di fondo per evitare un’inutile lunga decompressione, poiché non avrei ottenuto nessuna buona immagine ma solo scampoli di relitto.

Andrea Murdock Alpini a bordo della D_V Tenacious (Courtesy PHY Diving Equipment)

È stato un lungo percorso quello che mi ha condotto sul relitto dell’Andrea Doria. Un tumulto di pensieri mi attraversa prima di buttarmi in acqua per la terza e ultima volta di questo primo viaggio alla ricerca di ciò che è rimasto della Grande Dame.

Andrea Doria in costruzione, dopo il varo

Il relitto dell’Andrea Doria è spesso appellato come K2 o l’Everest della subacquea. Mi sono sempre chiesto perché proprio quella montagna e non un’altra vetta aspra e difficile da raggiungere? Non so chi abbia chiamato il relitto per la prima volta con questo nome. Il K2 è conosciuto come “la montagna degli italiani” ovvero un tributo a coloro che sono stati i primi a salirla fino in vetta, il 31 luglio 1954.  Due anni dopo, e solo una settimana prima di quella data, la bella nave del rinascimento culturale italiano, sociale, politico, economico e manifatturiero affondava al largo del Banco di Nantucket. Era il 26 luglio 1956.

Nel 1954 la spedizione guidata da Ardito Desio, arrivata tra le montagne del Pakistan, sceglie di raggiungere la vetta del K2 per la via che passa dallo Sperone Abruzzi, là dove Sua Altezza Reale il Duca degli Abruzzi Luigi Amedeo di Savoia arrivò e si fermò nel lontanissimo 1909.  Allora qual è lo Sperone Abruzzi dell’Andrea Doria? La corrente. Questo a mio avviso è il fattore ambientale che maggiormente va gestito in una spedizione su questo relitto. Male interpretare la corrente significa una débâcle totale del viaggio. A volte bisogna aspettare che la sua intensità diminuisca, che il flusso turbolento e travolgente perda progressivamente di forza per far sì che si possa entrare in acqua.

Attrezature subacquee di Andrea Murdock Alpini a bordo della D_V Tenacious (Courtesy PHY Diving Equipment)

Mi è capitato di vedere l’acqua ribollire in superficie tanta era la sua forza. Mi è capitato di vedere cime zavorrate trascinate come pagliuzze in ogni dove.  Mi è anche però capitato di vedere improvvisamente la corrente sparire del tutto in una frazione di secondo. Alla fine della prima immersione ho pensato che avrei dovuto rivedere i miei obiettivi, sia per l’intensità della corrente sia per le condizioni del relitto stesso. Uno schiaffo mi aveva dato la Grande Dame in quella prima occasione d’incontro. Prima di buttarmi in acqua per la seconda volta mi sono lungamente parlato per auto-convincermi e trovare la forza di affrontare al meglio quel secondo tuffo: “Dai! È solo maledetta corrente!”. La terza occasione ero deciso a non sprecarla, volevo qualcosa di più dall’Andrea Doria. Quello che volevo io bisognava ora vedere che lo volesse anche lei.

Quando ho visto il relitto per la prima volta, toccando la murata di sinistra, ho sussurrato alla nave: “E così sei tu, l’Andrea Doria”. Nonostante sapessi molto della nave non sapevo nulla del relitto, almeno finché non mi sono imbattuto nel suo incontro.  Adesso sono in acqua, inizio a respirare per lasciare la superficie e già dai primi pugni che afferrano la cima mi accorgo che qualcosa è cambiato. L’acqua ha un colore diverso, la densità è differente, ma soprattutto la corrente è assai meno intensa, sembra quasi che stia sparendo. Il tratto che solitamente attraverso in due minuti, adesso l’ho coperto in meno di uno. Il vetro della mia maschera per la prima volta non è inondato da plancton e nutrienti che mi sbattono addosso in continuazione. Ora, finalmente vedo. A ventisei metri alzo lo sguardo e scorgo la cima che non traballa come le gambe di un ubriaco che si aggira tra i carruggi genovesi. La cima è dritta, tesa. Più scendo e più non si muove. Non posso crederci. Questa deve essere finalmente l’occasione che aspettavo. È giunto il momento di andare all’elica.

L’elica dell’Andrea Doria (Courtesy Istituto Luce)

Conto le bitte: prima due, poi tre. Eccoci. È qui che bisogna attraversare la chiglia per raggiungere la maestosa elica di sinistra. Sotto murata la corrente è bassa, un nodo, niente in confronto ai quattro e cinque nodi a cui eravamo sempre abituati. Oltre la paratia quanto sarà intensa? Ho ancora bene in mente il ricordo del primo giorno quando, affacciandomi, sentivo strapparmi la del mio volto. Mano sinistra e mano destra sono ben salde al relitto. Alzo lo sguardo, non sento forze ostili.

Andrea Doria, le due eliche (Courtesy Istituto Luce)

Il tratto di chiglia da percorrere è ampio, la visibilità non permette comunque di muoversi a vista. Lungo lo scafo la corrente accelera, esattamente come mi aspettavo. Ho lasciato le tre bitte alle mie spalle, ora pinneggio in direzione dell’elica. Impiego qualche minuto per raggiungere la profondità di settanta metri. Una forza a me contraria limita la mia velocità di progressione. Poi d’improvviso, appare dal nero. Sento Joe Mazraani chiamarmi: “Andrea! It’shere”. È per lui la prima volta dopo quasi un centinaio di immersioni sul relitto. È per me il senso del viaggio.

Andrea Murdock Alpini insieme col capitano della D_V Tenacious Joe Mazraani (Courtesy PHY Diving Equipment)

Vedo subito due pale, poi conto le altre. Inizio a filmare, ma quando arrivo di fianco alla pala e vedo lo spessore di cui è composta resto estasiato. È una lama sottile, precisa, possente.  La forma di ogni pala è qualcosa di magico che diviene armonia nella visione d’insieme. Giro tutt’attorno all’elica, per un attimo mi sento Nijinskij. L’elica è tanto grande che non riesci a vederla contemporaneamente da una parte all’altra. Sotto la coltre soffice di anemoni, da qualche parte, è ancora scritto il nome “Genova”. Il bulbo è affusolato come un proiettile. Il bulbo è bello come un’architettura di Michelangelo e raffinato nella forma come un calcolo ingegneristico di Leonardo. Qui, da questi dettagli, si capisce la bellezza della nave.

L’Andrea Doria era un capolavoro galleggiante, non era soltanto un transatlantico di lusso. L’Andrea Doria alcuni decenni fa doveva essere l’ottava meraviglia del mondo da ammirare sott’acqua. Oggi le devastanti correnti e le burrasche oceaniche l’hanno parzialmente distrutta. Un capolavoro però lo riconosci dal dettaglio. Non serve vedere tutta l’opera di un maestro rinascimentale per capire quanto fosse bello l’intero quadro, ne basta una parte. Una parte descrive il tutto. Se vai a Firenze, Roma, Milano, Venezia, Napoli o Palermo, Urbino, Parma o Genova, ovunque tu vada tu percepisci la grandezza dell’Italia che fu. E così è sull’Andrea Doria: ovunque tu vada percepisci l’italianità. Cosa significa essere italiani? Questo è un valore che il nostro popolo calpesta e bistratta, eppure lo Stivale ha qualcosa da trasmettere a chiunque si imbatta nel suo senso culturale.

Qualcuno dice che vedere oggi l’Andrea Doria non abbia senso poiché sta scomparendo. Il senso invece è proprio questo, vederla prima che scompaia per sempre. Dopotutto, anche andare a Roma e vedere il Colosseo ha senso, anche se è lacunoso di molte parti, anche se la sua architettura è ormai frazionata e ben diversa dall’originale Teatro Flavio. “Begli edifici, meravigliose rovine”, così diceva Louis Khan, architetto americano che ha trovato le sue radici nell’architettura del passato.  Belle navi, meravigliosi relitti.

“Il sogno era sempre stato davanti a me, in fuga. Raggiungerlo – trascorrevi un momento all’unisono – quello  era il miracolo” (Anaïs Nin).

Spedizione italiana, ponte dell’Andrea Doria (1968)

Testo e immagini di Andrea Murdock Alpini (PHY Diving Equipment) – Immagini storiche: Archivio Fondazione Ansaldo – Genova

Immagine di copertina: Andrea Doria, cartolina promozionale Linea Nord America – Fototeca Fondazione Ansaldo, Genova

Autore

  • Classe 1985, si immerge dal 1997 in circuito aperto, in acque marine e lacustri prediligendo i relitti, storici o moderni. Subacqueo e istruttore tecnico TDI, SDI, CMAS, PTA. Collabora con le testate Scubaportal, Relitti in Liguria, NauticaReport, Sub Underwater Magazine, Scuba Zone e Ocean4Future. Tiene conferenze e seminari inerenti immersioni su relitti e subacquea tecnica. Organizza immersioni in luoghi insoliti e spedizioni subacquee su relitti. Documenta le proprie immersioni con video,...

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