“Come in un viaggio al principio del tempo, Cristo si è fermato a Eboli racconta la scoperta di una diversa civiltà. È quella dei contadini del Mezzogiorno: fuori della Storia e della Ragione progressiva, antichissima sapienza e paziente dolore. Il libro tuttavia non è un diario; fu scritto molti anni dopo l’esperienza diretta da cui trasse origine, quando le impressioni reali non avevano più la prosastica urgenza del documento.” (Carlo Levi, Cristo si è fermato ad Eboli, Prefazione)
Dopo un breve viaggio in Basilicata ho ripensato a Carlo Levi e ai luoghi dove è vissuto durante il suo confino. Ho riflettuto su come un’esperienza dolorosa sia diventata, per Levi, un viaggio di scoperta in un mondo nuovo e per lui sconosciuto. Un’esperienza formativa che cambiò completamente il suo modo di vivere e di sentire. In quei mesi l’artista e scrittore trovò un mondo semplice e dolente ma al contempo pieno di umanità e di attaccamento alla vita. Una vita più naturale, legata ai ritmi delle stagioni, allo sviluppo e ai frutti delle piante, alla convivenza con gli animali.
Una vita primordiale, terrena e concreta, dove i riti, più magici che religiosi, scandivano i giorni che sembravano tutti uguali, modificati solo dai fenomeni metereologici e naturali: il sole, la neve, la pioggia, il caldo, ilfreddo, la nascita, la morte. Il dottor Carlo Levi, 87 anni fa, per una sfortunata vicenda veniva condannato al confino in Lucania. Levi apparteneva ad una ricca famiglia torinese e oltre ad aver frequentato l’università, dove si era laureato in medicina, frequentava gruppi di intellettuali con cui discuteva a proposito delle vicende politiche e storiche che in quegli anni stavano accadendo nel nostro Paese. A causa di alcuni suoi saggi pubblicati per il movimento antifascista “Giustizia e Libertà”, fu arrestato una prima volta nel 1934 con una condanna di due mesi di reclusione e successivamente nel 1935 quando fu condannato ad un periodo di confino prima a Grassano, per circa un mese, e successivamente trasferito dal prefetto di Matera ad Aliano, dove rimase per otto mesi.
Carlo Levi esercitò la professione di medico per pochissimo tempo, scegliendo di dedicarsi alla sua passione principale, la pittura. Ma, pur essendo i suoi quadri apprezzati e ammirati dal pubblico e dai critici, la sua opera sicuramente più famosa è il libro che scrisse raccontando la sua esperienza in Lucania: “Cristo si è fermato ad Eboli”. Il libro non è un diario scritto durante il periodo di confino ma fu scritto anni dopo a Firenze, durante l’occupazione tedesca, e precisamente tra dicembre 1943 e luglio 1944. Fu poi pubblicato da Einaudi nel 1945, ebbe subito successo e fu considerato un romanzo della corrente del neorealismo. Il romanzo è un dettagliato ritratto di questo luogo e della società contadina dell’epoca, fece talmente scalpore che suscitò l’attenzione di molti personaggi del mondo politico e sociale. Già dal titolo si intuisce lo scopo di questo racconto, una Italia ancora una volta divisa. Un Nord e un Sud che non si parlano e quindi non si conoscono. La pietà di Cristo non è arrivata neanche a sfiorare questo profondo Sud, un territorio che pur facendo parte di questa Nazione è come se non esistesse per le regioni più o meno lontane del Nord e quindi per lo Stato di cui, nonostante tutto, fa parte. Dove lassù nessuno conosce questa vita rurale così arcaica e legata alla Natura, che scorre senza programmi, senza speranza, senza cultura, se non quella legata agli altri esseri viventi, fonte di nutrimento per gli abitanti del luogo, e allo scorrere del tempo, che forse neanche quello è percepito come tale. Una rassegnata accettazione della vita che ogni abitante di questi luoghi cerca di difendere fino alla fine come meglio può.
Per andare ad Aliano (nel libro il paese viene chiamato Gagliano) bisogna pensare questo viaggio, partire da un luogo con l’intenzione ben precisa di vedere questo borgo. Ad Aliano non si arriva per caso, non si trova su una strada di passaggio, è lì in alto, lungo e stretto, un’isola, come quelle in mezzo al mare, ma qui il mare non c’è, è lontano. Un’isola circondata da pareti scoscese e, una volta raggiunta, lo sguardo si affaccia su un mare di calanchi. Uno spettacolo unico e meraviglioso, quasi sembra di stare su un altro pianeta e non a caso qualcuno ha pensato di costruire un balcone che si affaccia su questa meraviglia. Lasciata l’automobile comincio a passeggiare per la via che attraversa il paese, si sale, si scende, si sale…la prima cosa che salta agli occhi è la cura con cui è tenuto questo borgo. Non è più il paese del confino di Carlo Levi, o forse sì, chissà. Comunque non c’è più la povertà di allora, gli abitanti hanno saputo trasformare questo luogo con l’amore per la Cultura e per la Natura, riuscendo però a mantenere le tradizioni di una volta. L’amore per la loro terra è rimasto, anzi si è amplificato ed ora questo paese ha acquisito una sua originalità che fa loro onore e che ha fatto conoscere la bellezza di questo luogo a moltissimi visitatori. Una cosa particolare quando si arriva ad Aliano è che si finisce di essere turisti e si diventa ospiti e amici, grazie alla cordialità degli alianesi. Nel paese, diventato Parco Letterario in onore di Carlo Levi, troviamo tutti i luoghi descritti nel libro, la casa del podestà, la chiesa di don Trajella, la casa dello scrittore, vuota come lui l’ha lasciata, l’ufficio postale e così via e poi la tomba di Levi che, nelle sue ultime volontà, chiese espressamente di essere sepolto lì. Troviamo anche il museo che raccoglie 23 opere del pittore Levi: raccontano i volti e i paesaggi che l’artista incontrò durante i mesi del suo confino. Sono opere di una forza straordinaria, testimoni di un’epoca ormai persa, ma che comunque trasmettono i sentimenti delle donne e degli uomini, che invece non cambiano mai. Oltre alle opere pittoriche, nel paese, è presente una collezione di fotografie che raccontano la vita di Levi. Ma non tutto è legato all’artista, gli Alianesi, come è giusto che sia, sono andati oltre e troviamo opere di altri artisti, artigiani e letteraticontemporanei. Periodicamente vengono organizzate manifestazioni culturali, si parte dal carnevale della vecchia tradizione contadina con le maschere “cornute“, per poi passare alle estemporanee di pittura, al festival “La Luna e i Calanchi” che fa arrivare nel piccolo Borgo migliaia di turisti, poi rappresentazioni teatrali, concerti di musica folcloristica e non, concorsi letterari. Un mondo pieno di fermento e di attenzione, i risultati positivi dovuti alla collaborazione costruttiva tra tutti gli abitanti.
Un’altra cosa che mi ha entusiasmato sono stati i prodotti tipici e la cucina, piatti semplici, della tradizione contadina, gustosissimi. Uno fra tutti i peperoni “cruschi”, sono dei peperoni rossi allungati che si coltivano qui, si raccolgono si infilano con uno spago a gruppi e si lasciano essiccare. Così conservati si potranno gustare nei mesi successivi ripassandoli per pochi secondi nell’olio bollente, sono gustosi con la pasta, con la pizza, nei panini e così via. Finito il mio soggiorno alianese, riprendo il mio viaggio e mi accingo a raggiungere la mia prossima meta, Matera. La natura della Basilicata, sempre sorprendente, così brulla e spesso “vuota“, con poche abitazioni, campi di grano verde, siamo a fine marzo, e sulle alture decine di pale eoliche, che girano al vento accumulando energia. Ogni volta che le vedo mi fanno sempre un certo effetto, queste strutture avveniristiche così lontane dal paesaggio circostante e allo stesso tempo ormai integrate e assimilate dal nostro immaginario collettivo. Durante il tragitto vengo attirata da una serie di piccole case, sparse tra i campi, tutte abbandonate, in un primo momento ho pensato ad una sorta di lottizzazione non andata a buon fine, ma poi guardando meglio, ho dedotto che potessero essere abitazioni assegnate in passato ai contadini che dovevano lavorare i terreni intorno. Comunque facevano uno strano effetto nel loro vuoto abbandono.
Ecco Matera, una periferia come tante, in Italia e nel mondo, nulla di particolare, raggiungiamo il nostro alloggio, un anonimo palazzo cittadino, entriamo in camera, mi affaccio al balcone e “Lei” è lì in tutto il suo splendore, la Matera dei Sassi, dalla chiesa in cima fino giù ai due quartieri: il Baresano e il Caveoso, noi siamo sopra quest’ultimo. È sorprendente osservare l’architettura irripetibile dei Sassi di Matera che ancora oggi racconta la capacità dell’uomo ad adattarsi perfettamente all’ambiente e al contesto naturale. Comincio a girare per la città, prima si incontra la città in piano, la vecchia Civita con il suo Duomo, il palazzo del Comune, la piazza con alcune opere di Salvator Dalì, l’elefante dalle lunghe zampe e Il pianoforte surreale, opere moderne che in fondo ben si accostano alle opere antiche. Vista la parte superiore comincio a scendere, nel quartiere Baresano, quello rivolto verso Bari. Le case sono addossate una sull’altra, in alcuni casi la roccia e la facciata si mescolano, si continua a scendere sempre più giù in questa specie di imbuto rovesciato. Oggi i Sassi hanno dimenticato la povertà dei loro abitanti, donne e uomini che fin da periodi antichissimi hanno occupato le grotte naturali che si trovavano in questa specie di calderone per poter coltivare piccoli appezzamenti di terreno.
Via via le grotte furono, prima allargate scavando il tufo, poi fornite di una facciata con una porta, e successivamente i muri sono cresciuti ancora e sono spuntate finestre e terrazze, alcune case anche abbellite da elementi decorativi. Le chiese rupestri, affrescate all’interno fanno ricordare elementi bizantini. Continuo a scendere in questo posto unico, fantastico. Oggi, grazie alla giusta attenzione che è stata data a questo luogo e ai fondi stanziati sia dalla Comunità Europea che dallo Stato Italiano, i Sassi, tutti restaurati e di nuovo abitati o utilizzati a scopi turistici hanno ottenuto il riconoscimento che meritano. Negli anni Sessanta del secolo scorso gli abitanti furono trasferiti nella città alta in case di nuova costruzione, più comode e soprattutto più salubri e così i Sassi rimasero vuoti. I vecchi abitanti però non furono contenti, in questo trasferimento avevano perso qualcosa di molto importante, il senso della comunità che li teneva insieme e che li faceva amici facendo condividere loro il poco che avevano. Negli anni Novanta molti ritornarono alle vecchie abitazioni e finalmente le istituzioni capirono che bisognava proteggere questo luogo, non doveva essere abbandonato ma semplicemente ristrutturato e rivalutato.
Oltre ai Sassi ho visitato il Parco della Murgia con le sue grotte abitate già nel paleolitico. Qui troviamo molte chiese rupestri veri gioielli, incastonate nella roccia. Giù la Gravina, il corso d’acqua che divide la Murgia dai Sassi. La Gravina, un torrente di modeste dimensioni, a causa della natura tufacea delle rocce ha scavato il terreno fino a formare una specie di canyon. Nel Parco, che ha come simbolo il Falco grillaio, sono presenti molti animali, tra questi anche il Capovaccaio, un piccolo avvoltoio. I Sassi, il Parco della Murgia e i siti delle Chiese Rupestri fanno parte dei siti UNESCO. Anche qui a Matera la cucina è eccezionale, piatti della tradizione accompagnati dal pane di grano duro, che si contende il primato con quello della vicina Altamura, inutile dirlo sono buonissimi entrambi. Con Altamura la città condivide anche un piccolo dolce, le “tette delle monache“. Se venite da queste parti ricordatevi di assaggiarle, sono dei piccoli pasticcini di pasta morbidissima ripieni di crema e spolverati di zucchero a velo, difficile descrivere il loro sapore…dovete venire qui ed assaggiarli.
Testo e disegni di Angela Maria Russo