Le meraviglie sommerse che si presentano davanti alla mia fotocamera ogni qualvolta mi immergo nell’incantevole specchio d’acqua compreso fra il Golfo del Cofano a ovest e il promontorio dello Zingaro ad est, sono sempre sorprendenti. San Vito Lo Capo è uno dei più ricercati luoghi turistici della Sicilia occidentale, tappa obbligata per chi desidera conoscere natura e atmosfera di un punto delli’isola ricco di fascino e storia. E poi, la straordinaria bellezza della sua spiaggia chiara spezzata dall’azzurro di un mare dal sapore tropicale, eletta più volte la migliore sul territorio italiano e fra le migliori su quello europeo. Se dovessi tuttavia soffermarmi a scrivere di ogni peculiarità che caratterizza questo splendido e variegato territorio, rischierei di dilungarmi troppo. E allora mi tuffo, sperando di trasferire a chi legge anche solo un’infinitesima parte delle mie sensazioni e di quel mondo subacqueo che porto in superficie attraverso le fotografie.
Inizio dall’incantevole scenario del Golfo di Macari, proprio quello della famosa serie televisiva, dove le pareti sommerse di Punta Negra – uno dei miei siti preferiti – iniziano a svelare la loro bellezza a partire da meno di cento metri dalla costa conducendo, attraverso gradoni e salti costanti, fino a oltre cinquanta metri di profondità. Un’immersione ricca sempre di sorprese sia per l’immancabile pesce stanziale che può incontrarsi, ma soprattutto per le numerose colonie di Gorgonia rossa che rappresentano una costante cromatica dal forte impatto, al pari dell’intensità della luce proveniente dal fondale di sabbia sottostante ed altamente riflettente. Le cavità in parete custodiscono ancora qualche ramo di corallo rosso che, a polipi aperti, rappresenta uno dei soggetti statici più belli da immortalare.
Spostandoci poi ad est di San Vito, l’antica tonnara situata all’interno del Golfo del Firriato, rappresenta uno degli elementi identitari del luogo. Come il Kent – uno dei relitti più ricercati dall’intera comunità subacquea – che “vive” lì da quarantacinque anni, sul fondo del mare tra Punta Spadillo e Punta Forbice, a circa cinquanta metri di profondità, nel suo fiero assetto di navigazione. Era il 7 luglio del 1978 quando, dopo una lenta agonia causata da un incendio che fortunatamente lasciò illeso l’equipaggio, iniziò ad affondare legato alla catena dell’ancora che lo aveva fino a quel momento sostenuto. Nel suo ultimo viaggio, guidato da Liakos Hristos e accompagnato da dieci persone, era partito da Siracusa diretto in Nigeria; chissà per quale strana motivazione portava con sé un carico di Corani, degli zampironi e tante sigarette!
Nato nel 1957 da “madre cipriota e padre greco”, nessuno avrebbe immaginato cosa stesse per accadere al Kent mentre, affondando, il Mediterraneo lo avrebbe accolto amorevolmente nel suo grembo per farlo poi risorgere a nuova vita. Questa nave emana un fascino particolare, a partire dalla coperta posta sulla quota dei trentotto metri dove gli scorfani, principali protagonisti del teatro faunistico vivente su quel relitto, ti accolgono come se ti stessero aspettando. E lo fanno in un ambiente insolito, ma probabilmente più adatto di altri, se si considerano le abitudini di quei pesci dovute alla disponibilità di cibo e al tipo di rifugi offerti dallo scafo che ne rappresenta una dimora confortevole, in buono stato di conservazione e letteralmente colonizzata dalle più svariate forme di vita. Difficile tentare di descrivere la nuova vita donata dal mare al Kent, che sembra continuare a navigare sul fondo; difficile immaginare come un immenso corpo estraneo sia stato “adottato” e trasformato in un’oasi, in cui la diversità biologica lascia stupefatti gli osservatori attenti. L’unica “arma” in mio possesso è la fotocamera, con la quale ho cercato di riportare in superficie le claveline che aderiscono al ferro del relitto, le spugne a guisa di cannule protese verso l’alto, gli sciami di castagnole e qualche timida aragostina pronta a ritirarsi al minimo segno di pericolo.
Se si potesse disporre di una scorta d’aria importante, senza tuttavia temere le conseguenze di una decompressione infinita, si potrebbe pinneggiare fino alla Secca delle Cataratte, situata proprio vicino al Kent. Ricchissima di rosse Gorgonie e frequentata sia da pesce stanziale che pelagico, le Cataratte iniziano con un cappello posto ai venti metri di quota fino a raggiungere grossi scogli simili a faraglioni fra i trenta e i cinquanta metri di profondità. Presentano spunti fotografici interessanti anche per i più esigenti.
La Grotta Perciata, la Grotta delle Colonne e quella dell’acqua dolce, dell’arco, del camino e dei gamberi (quest’ultima fra le più profonde), ci danno lo spunto per far comprendere che anche gli amanti del “cave” puro non rimarrebbero per nulla delusi.
Il mio viaggio ideale fra i fondali di San Vito potrebbe continuare ancora per molto, potrei scrivere della Secca di Calarossa o di quella del Faro, della Parete della Tonnara o di quella di Calampiso, ma nel corso dell’ultima mia permanenza in quello straordinario lembo isolano ho coronato il sogno di raggiungere il Corallo nero della Croce, al quale prima o poi dedicherò il tempo che merita. Mentirei se dicessi che la notte prima ho dormito serenamente; mentirei se affermassi di essere convinto che quel paradiso sommerso potesse essere riportato in superficie attraverso i miei scatti. Non mento se penso che ho ancora il cuore in gola.
di Giovanni Laganà – ingegnere e fotosub naturalista