Che colori ha il Jazz ? Il bianco e il nero. E non solo per la constatazione, didascalica, delle etnie dei suoi protagonisti. È in bianco e nero perché è sinonimo di contrasto, dotato di quella grana ruvida tipica, del segno indelebile, del gesto immediato che scaturisce dal’ ”qui e ora” e che viene evocato dalle immagini che utilizzano la medesima bicromia. È in bianco e nero perché così sono state le vite di molti artisti di Jazz sia bianchi che neri, spesso difficoltose, alle volte tragiche, mai rassicuranti, salvi in rari casi. È in bianco e nero perché è una musica della luce, anche abbagliante, e delle oscurità, quasi “caravaggesca”, sicuramente con una forte impronta romantica. Sono i colori della penombra dei Jazz Club, luoghi, più di ogni altro, deputati al rituale della jam session dove accadono molte più cose di quelle evidentemente musicali in termini di sfide, simpatie, antipatie e complicità. Il Jazz esiste perché è il figlio dei conflitti, anche di quelli che albergano in ognuno di noi, degli incontri e delle sintesi che, quando trovano una rappresentazione visiva, al di là della musica, sono in bianco e in nero.

Abbey and Max – La nota relazione musicale e, per una decina d’anni, anche sentimentale tra la cantante Anna Marie Wooldridge, conosciuta col nome d’arte di Abbey Lincoln, e il batterista Max Roach non è solo l’esempio di una proficua collaborazione artistica ma anche l’emblema di un binomio essenziale: il canto e la percussione ovvero le due espressioni più intime e primordiali della musica tout court. Il loro connubio, cresciuto anche all’ombra o, per meglio dire, alla luce delle lotte per i diritti civili degli afroamericani negli Stati Uniti d’America, ha ispirato molti musicisti di jazz dalla fine degli anni ‘50 e per tutti gli anni ‘60 e oltre in modo transgenerazionale. Ne sono testimonianza alcuni bellissimi album che li vedono protagonisti insieme a Mal Waldron, Coleman Hakwin, Eric Dolphy, Booker Little per citarne solo alcuni: We insist Freedom now suite, Percussion bitter sweet, It’s Time (per la cronaca tutti a nome di Max Roach). L’espressività e lo spessore emotivo dell’una si completano perfettamente con l’assertività la chiarezza dell’altro, indiscusso maestro di una costruzione narrativa limpida e musicale su uno strumento, la batteria, che trova in Max una dignità e una nobiltà squisitamente afroamericane.
Disco consigliato: Max Roach It’s Time.

Art, Wayne e Miles – Nell’ambiente, si sa, i musicisti girano più delle trottole. Collaborazioni, defezioni, incontri più o meno casuali e saltuari fanno da contorno a progettualità durature. Al centro di questo terzetto ci sta, manco a farlo apposta, un batterista. Non uno qualsiasi ma Art Blakey, ex pianista e leader di una delle formazioni più longeve e prolifiche, i “Jazz Messengers” che ha visto sfilare in vari decenni le personalità più interessanti dagli anni ’50 fino alla sua morte (1990) inanellando numerose perle discografiche all’insegna dell’hardbop. È proprio da questa scuderia di (allora) giovani talenti che il sassofonista e straordinario compositore Wayne Shorter migrò, dopo aver suonato e composto per i “Messengers” in oltre due anni, verso lo “stregone” Miles Davis anche lui compositore ma, più che di melodie, di straordinari gruppi musicali. Nel ‘64 Davis, per il suo mitico Second Quintet, assoldò Wayne che avrebbe aiutato a forgiare uno dei gruppi più visionari degli anni ‘60. Come spesso accade in ambiente artistico e in amore, la migrazione causò gioia e dolore. Svariate testimonianze raccontano come, accortosi della “corte” che Davis faceva a Shorter, Art Blakey, in camerino durante l’intervallo di una esibizione, camminasse su e giù nervosamente, già presagendo la perdita e ripetendo con la sua voce roca: “Miles want to steal my saxophone player!” (Miles vuole rubarmi il sassofonista!).
Dischi consigliati: Art Blakey and The Jazz Messengers: Caravan; Wayne Shorter: Speak no Evil; Miles Davis: Sorcerer



“Chazz” e Eric – Charles Mingus lo spaccone, lo scontroso, tanto violento quando dolce, il frustrato e il megalomane ed infine, lo struggente “Chazz”. Eric Dolphy il santo gentile, lo studioso, il tollerante, il marziano, musicalmente ecumenico e interessato alle musiche del mondo. Raramente due figure caratterialmente così diverse si sono incontrate e ammirate vicendevolmente nella breve (ma non più tanto) storia della musica “Jazz”, termine che Mingus non ha mai accettato per motivazioni anche ben fondate. Credo che la stima di Charles per Eric, uno dei veri grandi polistrumentisti del Jazz insieme a pochi altri, come ad esempio Garvin Bushell, abbia avuto molto a che fare con la visione ad ampio spettro di Dolphy, visione testimoniata anche dal suo ultimo, e forse più grande, capolavoro “Out To Lunch” (1964) un vero proprio ponte lanciato nel futuro e ancora non completamente percorso. Dolphy non poteva trovare miglior partnership, pari forse a quella con John Coltrane, per esprimere il suo delirio controllato, la sua voglia di forzare i limiti strumentali e musicali. Così come Mingus non poteva trovare miglior partner e interprete per il torrenziale, struggente e alle volte ironico lirismo delle sue composizioni.
Dischi consigliati: Charles Mingus with Eric Dolphy, Cornell 1964; Eric Dolphy: Out to Lunch

Le Fughe del Jazz – La foto rende giustizia ad uno dei gruppi stabili più longevi della storia del Jazz moderno. È un quadro le cui proporzioni, la disposizione dei vuoti, dei pieni, della luce e delle ombre descrivono l’equilibrio della musica del MJQ. Scegliendo accuratamente i partner dalla crema degli strumentisti degli anni ‘50 (Percy Heath, Milt Jackson, Kenny Clarke prima e Connie Kay poi), il colto John Lewis era senz’altro consapevole sia della declinazione decisamente afroamericana del jazz che del debito culturale della musica statunitense nei confronti della vecchia Europa. Un’idea brillante del grande pianista e compositore originario di Chicago per coniugare ricerca, innovazione, senso del blues, e forme “colte” in un linguaggio precocemente “crossover” come si direbbe oggi, ovvero multilinguistico. Il jazz è sempre stato trasversale e ha attinto, sintetizzandole, a diverse fonti. John Lewis ha semplicemente fatto quello che è sempre stato nell’aria, ovviamente a un livello artistico elegantemente provocatorio dove la fuga, la variazione, la suite, il contrappunto si coniugano con l’inflessione jazzistica e il senso del blues senza tradirli mai. Chi sostiene che John Lewis abbia creato un’immagine patinata e perbenista del jazz sbaglia di grosso: fu proprio lui infatti, insieme con Gunther Schuller animatore della cosiddetta “third stream”, a promuovere il giovane Ornette Coleman presso la Contemporary Records.nel 1958. La musica del MJQ di cui Lewis è il primo responsabile, non è mai manieristica ma guarda invece lontano indicandoci ancora un futuro possibile.
Disco consigliato: The Modern Jazz Quartet, Concorde32

Thelonious “Sphere” Monk – “Questo pezzo l’abbiamo già ballato ieri”. Più o meno diceva così Thelonious Monk scegliendo i brani per il repertorio della serata (o della seduta di registrazione). Il fatto che egli usasse il termine “ballato” invece di “suonato” non era certamente un lapsus e probabilmente non era nemmeno direttamente riferito ai suoi celebri girotondi su se stesso, sul palco, mentre gli altri musicisti del suo quartetto suonavano un brano (magari durante il solo del fido tenor sassofonista Charlie Rouse). Vedendolo girare intorno alla circonferenza delimitata dei suoi piedi, alcuni pensavano a un orso ammaestrato, altri alla danza circolare dei Dervisci Rotanti di origine Sufi, altri ancora ad un eccentrico jazzista negro. Theloniuos Monk forse era tutte e tre le cose insieme e, certamente, molto di più. Quello di cui sono convinto è che “ballare” un pezzo di jazz significava per Monk principalmente una cosa e cioè che il Jazz è danza. Non solo la danza del corpo, più e meno educato, ma anche e sopratutto la danza dall’anima e dello spirito in un connubio tra fisicità e mente che ha invaso pacificamente il ‘900 musicale statunitense e non solo. È opinione comune che il BeBop, corrente musicale di cui Monk è stato uno dei capostipiti ed uno dei maggiori ispiratori, fosse una musica solo di ascolto contrapposta frontalmente allo Swing orchestrale. Con i suoi girotondi apparentemente goffi, Monk ci dice: “ballate con me questa musica, come vi viene, come vi riesce ma ballate!”
Disco consigliato: Thelonious Monk, Straight no Chaser

“Newk” e il ponte – C’è chi dice che nei passaggi pedonali del ponte di Willamsburg, a Brooklyn New York, risuonino ancora le potenti e rotonde note del sassofono di Sonny “newk” Rollins il quale andò là per almeno un anno a esercitarsi. A seguito di questa pratica Rollins dette una svolta sostanziale alla sua musica, testimoniata nell’impareggiabile album del 1962 intitolato, appunto, “The Bridge” e uscito dopo un silenzio editoriale di ben tre anni, dovuto alla sua insoddisfazione per quello che musicalmente stava facendo allora. Se immaginiamo il sassofonista solitario che studia cercando di concentrarsi e di far emergere il suo suono, disturbato dal clangore della metropolitana, dai clacson del traffico e delle imbarcazioni che passavano sull’est river, non può non venirci in mente Glenn Gould che raccontava di studiare il pianoforte con la radio da un lato e la televisione dall’altro, accese entrambe a tutto volume. La domanda sorge spontanea: che i due si siano consultati?
Disco Consigliato: Sonny Rollins, The Bridge

A cura di Roberto Besana
Fotografie di Jean-Pierre Maurer jeanpierremaurer.com/Biografia.html
Testo di Alessandro Fabbri – docente di composizione Jazz al Conservatorio Cherubini di Firenze www.alessandrofabbri.net
Immagine in copertina: Memphis Slim
