La datazione ufficiale
Poco meno di duecento anni di storia quelli della fotografia, almeno secondo la datazione ufficiale, eppure abbiamo una così ampia densità di eventi che riassumerli in poche righe risulta un’impresa senza dubbio impossibile. Tuttavia vale la pena tentare, almeno per il primo periodo. Senza impelagarsi nelle questioni etimologiche, cercando di capire se il termine “fotografia” significhi “scrittura della luce” o “con la luce”, partiamo cercando di individuare quei protagonisti che ci hanno aperto le porte alla nostra contemporaneità fatta di immagini che tutt’oggi viviamo. La prima fotografia scattata con un processo simile a quello odierno (soprattutto per quanto riguarda l’analogico, che pare stia tornando di moda) fu un paesaggio, ripreso dalla finestra dell’inventore francese Joseph Nicéphore Niépce nel 1826.
Il termine “scatto”, tuttavia, in questa sede non sarebbe propriamente corretto, in quanto il processo che ha portato al risultato finale non fu molto “scattante”; per imprimere l’immagine Joseph usò una lastra di stagno coperta di bitume di Giudea all’interno di una camera oscura, la quale venne esposta alla luce per ben otto ore. Esporre la lastra per così tanto tempo significa che il mondo lì fuori, nel frattempo, si muove vertiginosamente. Mentre la camera oscura registra l’immagine, tutto quanto – compreso il sole – è in movimento. Infatti la fotografia ci presenta degli edifici molto sgranati, ma di cui si può chiaramente comprendere come siano illuminati sia a destra sia a sinistra (effetto dovuto appunto alla rotazione della terra). Il risultato tuttavia era qualcosa che fino a quel momento non era mai stato raggiunto, e ciò spinse Niépce a continuare le sue ricerche.
L’eliografia di Niépce e il dagherrotipo di Daguerre
Sfortunatamente, il 5 luglio 1833, all’età di sessantotto anni, Joseph Niépce si spense, lasciando il suo lavoro a metà. C’era però qualcuno che aveva capito le potenzialità di quel progetto rivoluzionario, e che non aveva intenzione di lasciarlo incompiuto. Quattro anni prima di morire infatti Joseph si era messo in società con qualcuno il cui nome dovrebbe già risuonare familiare per molti: Louis-Jacques-Mandè Daguerre.
Questi era un chimico, e collaborò con Joseph fino alla sua morte per migliorare sempre più quella che si prospettava essere l’invenzione del secolo. Nel 1839, finalmente, Daguerre riuscì a trovare la leva giusta per sviluppare e diffondere la “sua” invenzione; questa leva venne incarnata dal fisico François Arago, che presentò il progetto all’Accademia delle scienze francese. Niépce aveva denominato “eliografia” la tecnica usata per il famoso paesaggio citato sopra, ma al momento della sua presentazione ufficiale Daguerre, in maniera un po’ egoistica e megalomane, gli affibbiò il nome di “Dagherrotipo”, per l’appunto. Sembra quasi che volesse prendersi tutto il merito, ma in ambito accademico tutti conoscono il giusto ordine dell’avvicendarsi dei fatti.
Le Boulevard du Temple
Ad ogni modo, dando a Cesare quel che è di Cesare, bisogna dire che Daguerre migliorò molto la tecnica eliografica sviluppata dal suo socio tredici anni prima, anche se nemmeno in questo caso possiamo parlare di “scatto”. Un esempio lampante per capire ciò è un altro paesaggio di Daguerre catturato nel 1838, questa volta urbano, ripreso da una finestra sul Boulevard du Temple a Parigi. A queste date il processo di impressione non richiede più otto ore, ma circa otto minuti (motivo per cui nessun modello, nei ritratti da studio di queste date, sorride; sarebbe troppo stancante!). La foto in questione è stata fatta di giorno, momento in cui all’epoca quella via era molto affollata, ma stranamente lungo la strada non vediamo nessuno, fatta eccezione per un uomo col piede appoggiato su qualcosa. Ovviamente il dagherrotipo in questione non ha immortalato un momento di quarantena come quelli che purtroppo abbiamo imparato a conoscere ai nostri giorni, ma semplicemente la camera oscura non riusciva ancora a catturare qualcosa che fosse in movimento, come appunto delle persone che passeggiano. Il fortunato sconosciuto col ginocchio alzato, che è entrato nella storia quasi per caso, probabilmente era un semplice passante che aveva fatto una sosta per farsi lucidare le scarpe, rimanendo fermo il tempo necessario per essere impresso nella lastra.
Il dagherrotipo
Abbiamo detto che il dagherrotipo fu presentato per la prima volta all’Accademia delle scienze, e non ad un’Accademia di belle arti; ciò dovrebbe farci riflettere molto perché ci fa comprendere che quello strano oggetto non venne considerato subito come un mezzo ulteriore per poter fare arte. Infatti lo scontro con i pittori, che consideravano la fotografia un surrogato della loro “arte maggiore”, non tardò ad arrivare; molti di loro, i più progressisti, all’inizio usavano i dagherrotipi per far evitar lunghe ore di posa alle persone da ritrarre, ma ben presto il popolo meno abbiente cominciò a preferire una mera fotografia al quadro completo, vista la minor quantità di tempo e denaro richiesto.
Nadar, il fotografo dei VIP
Anche le celebrità cominciarono ad ambire una propria foto, soprattutto se a immortalarli fosse stato Nadar, probabilmente il fotografo più famoso di tutto il XIX secolo. Fra i suoi clienti più famosi annoveriamo Baudelaire, Offenbach, Sarah Bernhardt, Rossini, Dumas, Millet, Hugo, Delacroix e molti altri.
Dalla fotografia che imita l’arte…
Alcuni fotografi, come ad esempio Oscar G. Rejlander, cercarono di adoperare il mezzo fotografico mirando ad ottenere un risultato finale simile a un quadro monocromatico (in questo caso quasi neoclassico) per poter avvicinarsi alla dignità già intrinseca della pittura.
… alla fotografia che immortala la realtà
Ma ciò durò poco, la fotografia divenne lentamente il mezzo principale per immortalare la realtà allo stato puro, sorpassando il quadro nell’accezione più classica, per quanto potesse ottenere risultati fedeli al soggetto ripreso dal vero. Senza questo passaggio quasi “bellico” gli artisti non si sarebbero mai evoluti (o magari non subito); non avremmo avuto in sostanza la nascita di correnti come l’Impressionismo, il Futurismo, l’Espressionismo o addirittura il Dada, con il quale si supera definitivamente la concezione di arte relegata all’oggetto quadro e/o statua. Insomma, se non ci fosse stata la fotografia, oggi nei manuali di storia dell’arte troveremo qualcosa di simile al romanticismo ancora nei capitoli dedicati all’arte contemporanea.
Remo Sciutto