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Guatemala, il segreto della vita eterna

È capitato a tutti di chiedersi: “Ma cosa ci sarà dopo la morte? Perché da secoli l’uomo ha il desiderio di raggiungere l’immortalità?”. Il concetto di morte ci fa paura, genera angoscia, ci spinge a escogitare sistemi per sfuggirne alla minaccia. Ci aggreghiamo e sviluppiamo rituali stereotipati per affrontare la tristezza che genera la perdita di una persona cara. A volte cerchiamo rifugio in meccanismi di negazione e rimozione che trasformano un addio in una vera e propria interdizione sacrale. E poi, in netta contrapposizione con la nostra cultura, ve ne sono altre dove la morte viene addirittura celebrata. Era quello che avrei scoperto nel mio viaggio in Guatemala, tentato proprio dal voler infrangere questo tabù occidentale.

Arco di Santa Caterina – Antigua

Arrivai ad Antigua in nottata. Il fascino dell’ex capitale si rivelò solo all’alba del mattino seguente, quando le prime luci del giorno mostrarono l’incantevole bellezza di una città apparentemente cristallizzata nel passato. Mi inoltrai per le stradine acciottolate tra piccole abitazioni dai mille colori pastello. Numerosi negozietti con le insegne dipinte a mano iniziavano ad aprire e il profumo proveniente dalle cucine inebriò il mio andare. Passai sotto il giallo senape dell’arco di Santa Caterina osservando un’anziana donna intenta ad allestire la sua bancarella di pietre e tessuti. Le caratteristiche vie di Antigua si intrecciano in un ordine rinascimentale attraversando piazze adornate di fiori sgargianti. All’orizzonte, tanto maestoso quanto inquietante, l’imponente vulcano de Agua avvolto dalla nebbia. La sua bellezza si apprezza ancor di più salendo sopra il Cerro de la Cruz: tutta Antigua sembra china ai suoi piedi. In questo viaggio, addirittura, salii sulla cima di un vulcano, uno dei più attivi del Guatemala: il vulcano Pacaya. Mi accolse uno dei panorami naturali più incredibili che io abbia mai visto. Sembrava di solcare un mare nero, il terreno era avvolto su se stesso come onde immortalate in una fotografia. Dalla sommità colavano lentamente lingue rosse infuocate. Si riusciva a percepire il calore della terra proveniente dal profondo e, in una piccola buca, riuscii persino a scaldare dei marshmallow.

Cerro de la Cruz

Il viaggio proseguì in direzione ovest. Mi imbattei in un antico villaggio Maya, Iximche. Fu la capitale dei Maya Kaqchikel e, nonostante il sito sia meno famoso del più celebre Tikal, contiene numerose rovine, tra cui le caratteristiche piramidi Maya, resti di alcune abitazioni e un incredibile campo dove veniva praticato l’antico gioco della pelota, un passatempo legato al culto del sole. Quei luoghi emanavano un’energia davvero potente. Potevo avvertire antichi riti sciamanici, respirare la sacralità di quelle cerimonie che lodavano Madre Terra, sentirmi parte di quello spirito che unisce l’uomo alla sua condizione originaria di essere animale per celebrare ed onorare la natura. Poco oltre un boschetto scorsi alcuni sacerdoti intenti a bruciare il copal, inebriando l’aria circostante di un profumo chiaro e legnoso. L’antica cultura Maya è ancora viva!

Iximché – Sito archeologico Maya

Trascorsi i giorni successivi vicino al lago Atitlán. Sulle sue rive sorgono svariati siti di grandi città, comunità indigene e piccoli villaggi, ognuno così diverso dall’altro che da queste parti vengono parlati ben quindici dialetti Maya differenti. Ogni villaggio ha un suo stile ben definito. A San Pedro La Laguna, la tana dei backpackers, si respira l’odore del caffè tradizionale, mentre a Panajachel l’aria è satura della polvere sollevata dai mitici chicken bus. Il villaggio hippy di San Marcos è un labirinto di stretti vicoli di cemento che si snodano tra rigogliosi alberi e cespugli fioriti. Santiago Atitlán è la culla degli insoliti rituali del sincretismo cattolico che venera Maximon, un santo Maya che ha le sembianze di un fantoccio di legno. A Santa Caterina Palopo ho annegato i miei pensieri in un ottimo Mezcal e a San Juan ho dilettato il mio palato gustando delle buonissime Pupusas. Ho avuto anche l’occasione di ammirare una spettacolare alba salendo verso l’Indian Nose dove il panorama selvaggio del Guatemala si apre sul maestoso lago Atitlán e i numerosi vulcani presenti sembrano volerti mandare dei messaggi tramite le fumate che si innalzano dai crateri.

Tuk tuk e chicken bus
Lago Atitlán
Vulcano Pacaya

Ormai i giorni delle celebrazioni del Dia de Los Muertos e del Dia de Todos Los Santos erano alle porte. Così raggiunsi le zone settentrionali del paese fuori dagli itinerari più battuti. Le scalinate della chiesa quattrocentesca di San Tomàs, a Chichicastenango, erano interamente occupate dai venditori di fiori. Dalla cima della gradinata non riuscivo a vedere la fine del mercato talmente era grande. Sulle bancarelle c’era ogni tipo di mercanzia: maschere di legno, tessuti, vestiti, giocattoli, amache, coltelli, gioielli, tappeti, arazzi e ceramiche. Per non parlare della zona dei prodotti alimentari: un quadro variopinto di frutta e verdura, di spezie e legumi sistemati in un ordine allettante. Il profumo delle zuppe, dei vari intingoli, dei tamales e delle tortillas attirava ogni desiderio culinario.

Il mercato più colorato dell’America Latina (Chichicastenango)

Nel tardo pomeriggio le cittadine diventano caotiche. Mi trovai nello sperduto villaggio di Todos Santos il 31 di ottobre. Gli abitanti cominciarono a riversarsi sulle strade vestiti con tipici abiti tradizionali: gli uomini indossavano pantaloni a righe rosse e bianche, camicie celesti e un cappello di paglia con un nastro blu, mentre le donne gonna scura e camicia multicolore. Una grossa ruota panoramica svettava sopra i tetti della piazza centrale. Alla sera un vetusto spettacolo pirotecnico accolse il giorno di Ognissanti. In queste giornate festive saltano tutti i limiti all’assunzione di alcolici e molti uomini erano visibilmente alticci.  Ciononostante, i più caparbi prendevano parte a una bizzarra corsa di cavalli che si tiene come di consueto il primo giorno di novembre e che consiste nel percorrere avanti e indietro una pista di 200 metri, tracannando una birra ad ogni giro e cercando di rimanere in sella il più a lungo possibile per aggiudicarsi la vittoria. Feci poi visita ad uno dei singolari cimiteri della zona. A differenza dei nostri, sono decisamente originali: ogni cappella ha un colore diverso dall’altra e, se non fosse per la presenza di lapidi e crocefissi, sembrerebbe di trovarsi in una piccola e vivace cittadina. Nel giorno della commemorazione dei morti il camposanto è gremito di famiglie. Provai una serie di sentimenti contrastanti: se di solito si è tristi in un giorno come questo, qua vedevo invece la gioia della gente che mi orbitava intorno. Pensavo alle classiche marce funebri mentre ascoltavo l’allegra e vivace melodia della marimba suonata dalle bande in giro tra le tombe. Mi stupii osservando il cielo, puntellato dai mille colori degli aquiloni. Fu allora che scesero alcune lacrime sul mio viso: un filo per richiamare i propri cari, una direzione per tornare verso casa almeno per un giorno. E ho immaginato le persone che hanno segnato positivamente la mia vita.

Cimitero

È proprio vero che è dai viaggi che derivano i più grandi insegnamenti. Per l’ennesima volta lo provavo sulla mia pelle. Imparavo che l’apertura alle altre culture può portare enormi benefici, che la morte può diventare un passaggio gioioso che non deve essere temuto ma accettato, che El dia de Los Muertos non è una celebrazione della morte bensì della vita, un inno all’esistenza. Non importa quanto guadagni, dove lavori e chi sei. Importa come sei. Che le persone che hanno significato qualcosa di importante saranno per sempre al nostro fianco. Che se si sceglie di vivere nel giusto, nel rispetto, se ci si circonda di gente che ci fa stare bene, se si sceglie l’amore sempre, allora, seppur nel ricordo altrui, possiamo vivere in eterno. Forse il segreto è proprio questo.

Panajachel

di David De Giorgio, esploratore – Fotografie di Max Giubilei