Vai al contenuto

Editoriale 10/MMXXIII

Machu Picchu, situata su una cima delle Ande peruviane, in mezzo alla foresta tropicale, è stupore e mistero nello stesso tempo. La bellezza della sua architettura, la meraviglia per le opere artistiche e urbane che lì sono state realizzate nel XV secolo, l’incanto della posizione, attestano la grande saggezza del popolo Inca e ci inducono a spostare un po’ più oltre l’orizzonte di ciò che sappiamo sulle civiltà umane. Una città che un tempo fu ricca, poi perduta per secoli e infine ritrovata; un destino simile a quello di Petra, la capitale dei Nabatei nascosta tra le montagne del Wadi Musa, nell’attuale Giordania.

Abbarbicata su quella “montagna vecchia”, Machu Picchu sembra parlarci con i suoi silenzi e con le sue pietre che accarezzano il cielo, stimolando le nostre suggestioni e seducendo la nostra immaginazione. Sicché, davanti a tanta imponenza, Hiram Bingham, l’esploratore americano che il 24 luglio del 1911 la scoprì – ma sarebbe più corretto dire, riscoprì – affermò: “nella varietà dei suoi incanti e il potere della sua seduzione, non conosco nessun altro posto al mondo che possa paragonare”. Riconosciuta come una delle nuove sette meraviglie del mondo, dal 1983 è dichiarata patrimonio culturale e naturale dell’umanità dall’Unesco. Non si hanno certezze circa il vero scopo della sua costruzione e il significato che tale sito avesse per gli Inca; è però certo che sia stato un simbolo nel passato, così come lo è nel presente a motivo del valore e della trascendenza che esso rappresenta. Un luogo potentemente icastico, consegnato per secoli all’oblio, mantenuto vivo solo nella memoria di poche persone, e infine riscoperto per rappresentare nuovamente e definitivamente una civiltà così piena di fascino ma ancora, in parte, nascosta al buio del giorno.

di Fabio Lagonia